L’Europa va ricostruita dalle fondamenta, a partire dalla ridefinizione dei suoi confini. L’Europa che c’è ora si sta sfaldando perché incapace di fronteggiare le tre sfide che i suoi popoli devono affrontare: la sfida ambientale; quella economica; e quella dei profughi.
Profughi, non migranti; gente che preme ai confini dell’Europa non alla ricerca di una «vita migliore», come negli scorsi decenni, ma per sfuggire a guerre, stragi, morte per fame e schiavitù.
L’Europa va ricostruita dalle fondamenta, a partire dalla ridefinizione dei suoi confini. L’Europa che c’è ora si sta sfaldando perché incapace di fronteggiare le tre sfide che i suoi popoli devono affrontare: la sfida ambientale; quella economica; e quella dei profughi. Profughi, non migranti; gente che preme ai confini dell’Europa non alla ricerca di una “vita migliore”, come negli scorsi decenni, ma per sfuggire a guerre, stragi, morte per fame e schiavitù.
Tre crisi interconnesse che richiedono uno sguardo alto sugli orizzonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrapporre un’entità regionale come l’Europa a quelle di Stati nazionali ormai palesemente inadeguati. Eppure, nel dibattito politico il tema della crisi ambientale è ormai affondato, sommerso dalle preoccupazioni finanziarie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben amministrare la casa comune, si è ridotta a una misera partita doppia del dare e del prendere, dove prendere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il sopravvento sul dare. La questione dei profughi, finora considerata marginale (quasi un incidente di percorso) è la più grave e urgente, perché riassume in sé tutte le altre; ma ridisegnerà i confini dell’Europa e le sue fondamenta.
Una classe dominante tirchia e vorace cerca di eludere i problemi posti dalla crisi ambientale globale, dall’”emergenza profughi”, dalle violazioni quotidiane della dignità umana subite da chi è senza reddito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza famiglia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguardano». Sembra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il protrarsi endemico di conflitti insostenibili, o le stesse guerre guerreggiate ai suoi bordi – a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assiste ignava – non la riguardino. Mentre la stanno trascinando nell’abisso. Un abisso dove si intravvedono già le prime avvisaglie – ma se ne ascoltano ormai ad alta voce gli incitamenti – di una politica di sterminio.
Che differenza c’è, infatti, se non in peggio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli trascorsi e le carrette del mare che trascinano a fondo i profughi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Lerner, tra i treni piombati che portavano gli ebrei ad Auschwitz, per trasferirli subito nelle camere a gas, e le stive dei barconi dentro cui i profughi, chiusi a chiave, sprofondano in fondo al mare senza nemmeno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei soppressi nei campi di sterminio nazisti – i profughi che affollano i campi dei paesi ai bordi del Mediterraneo, o che si apprestano a intraprendere un viaggio della morte verso le coste europee. E se per loro non sapremo mettere a punto soluzioni diverse – perché mancano i soldi, o perché non c’è posto, o perché sconvolgerebbero il non più tanto quieto vivere dei cittadini europei – la sorte che gli prepariamo è quella.
Bisogna esserne consapevoli. Che cosa significano infatti le “soluzioni” prospettate dai nostri governanti: sia italiani che europei? Distruggere le carrette del mare? Ne troveranno altre, ancora più costose e insicure. Allestire campi di raccolta ai confini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per trasportare in sicurezza i rifugiati, di lì verso la loro meta? O per affidare a dittature di ogni genere centinaia di migliaia di derelitti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi tenteranno la fuga o verranno sterminati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbarcano? Ma non sono state proprio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bambini senza più un posto dove vivere? Combattere e arrestare gli scafisti (la soluzione più ipocrita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono raggiungere le coste europee, o è la mancanza di alternative sicure, messe al bando dall’Europa, a produrre e riprodurre gli scafisti?
La verità è che quei profughi sono già cittadini europei. Cittadini di ultima classe, perché non viene riconosciuto loro alcun diritto; ma tuttavia abitanti che fanno parte del contesto dove si decide il destino dell’Europa. Proprio per questo i paesi da cui fuggono sono già parte integrante del suolo europeo. Ma, a differenza dei migranti degli scorsi decenni quei profughi non tentano la traversata del Mediterraneo, o lo scavalcamento dei confini orientali, per trasferirsi in Europa per sempre; in gran parte sono pronti a tornare nei loro paesi non appena la situazione lo permettesse. Quella situazione è la pacificazione e la rinascita di quei territori: cose che non si ottengono con la guerra, né con una diplomazia che finge di trattare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che continuano ad essere armate da giochi e triangolazioni su cui ha sempre meno controllo.
Quella pacificazione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha bisogno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo portante potrebbero essere proprio quei profughi che hanno raggiunto o che cercano di raggiungere il suolo europeo; i legami che li uniscono sia a parenti e comunità già insediate in Europa, sia a coloro che sono rimasti, o non sono riusciti a fuggire dai loro paesi. Ma a quella moltitudine dispersa e disparata (i flussi) occorre riconoscere la dignità di persone. Aiutandole innanzitutto a raggiungere in sicurezza la meta; ma anche, una volta qui, permettendole di sistemarsi, seppure in modo provvisorio, in condizioni dignitose: in case che non siano insalubri ricoveri illegali; possibilmente diffuse sul territorio sia per non gravare su singoli abitati votati al degrado, sia per facilitare rapporti di buon vicinato con i locali. Con un lavoro, anche parziale, a partire dalla gestione e dalla sistemazione fisica degli ambienti in cui devono trascorrere una parte della loro vita: tra loro ci sono muratori, fabbri, falegnami, elettricisti, agricoltori; ma anche maestri, contabili, informatici, ingegneri, medici infermieri; perché mai attività che, adeguatamente sostenute, possono fare loro, vengono invece affidate a cooperative che li sfruttano e costano il triplo? Ma, soprattutto, occorre facilitar loro la possibilità di incontrarsi, di mettersi in rete, di eleggere i loro rappresentanti, di farsi comunità sociale e politica, di mettere a punto strategie per il loro ritorno.
Ma come si può anche solo proporre obiettivi del genere in paesi dove la disoccupazione è alle stelle e casa, reddito e lavoro mancano anche a tanti europei? Non si può. A meno di perseguire per tutti, cittadini europei e stranieri, degli standard minimi di reddito, di abitazione, di lavoro (promosso o creato direttamente o indirettamente dai poteri pubblici), di istruzione, di assistenza sanitaria. L’essenza stessa di un programma radicalmente alternativo a quello perseguito dall’attuale governance europea con le politiche di austerità. Ma l’unico capace di affrontare l’ondata del razzismo e della xenofobia alimentata dagli imprenditori politici della paura di destra e sinistra. E l’unico per fornire una road map alla rifondazione radicale dell’Europa; a partire dal riconoscimento dei suoi confini di fatto e di quei diritti senza i quali la pretesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fondamento.
Utopia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa immagine di un continente oasi di pace dopo la seconda guerra mondiale non resisteranno a lungo se non si lavora fin d’ora per invertire rotta. E la nuova rotta è questa: insieme ai nostri fratelli e sorelle che fuggendo dalle guerre ci portano, con la loro stessa vicenda esistenziale, un messaggio di pace.