«Ritorno alla mia visita nel paese di Abramo, all’attualità del suo patto di ospitalità con Dio, a quel luogo sacro di Mambre dove la Bibbia ce lo mostra mentre riceve la visita dei tre Angeli e, come diceva Martin Buber, dove il Kiddush di Abramo (in ebraico la benedizione sul vino), aveva consacrato il pasto che lui gli offriva rendendo il nutrimento materiale lecito agli Angeli. Questa benedizione ha fatto rientrare tutta la creazione in quella società sovrumana che è fondata sul pasto dell’ospitalità. A Mambre gli Angeli venivano a provocare Abramo perché perorasse eroicamente la causa di una città condannata e maledetta, Sodoma, che aveva voluto abusare dell’ospitalità divina nella persona degli ospiti di suo nipote Lot. Noi stessi saremo condannati se manteniamo la stessa attitudine verso i profughi di oggi, perché il Giudizio Finale sarà dato come testimonia il Vangelo sui nostri doveri d’ospitalità. Come davanti a ogni manifestazione autentica del sacro, dobbiamo adottare un’attitudine di rivolta contro qualcosa di intollerabile, contro un peccato proibito che dobbiamo far cessare ad ogni costo prima in noi stessi e poi negli altri».

Con queste parole Louis Massignon (1883 – 1962), arabista francese, allievo del padre Charles de Foucauld, studioso e filologo dell’opera del grande mistico e poeta sufi Mansùr Al-Hallâj, maestro di Henry Corbin e di Germaine Tillion, educatore e difensore dei diritti dei popoli oppressi, traccia l’orizzonte spirituale di quella che, già allora, siamo nel 1951 dinanzi all’Organizzazione internazionale dei rifugiati, si poneva come una questione cruciale: la relazione etico-politica della Comunità internazionale nei confronti dei rifugiati palestinesi del 1948.

In Rifugiati europei e migrazioni internazionali (pubblicato per i tipi delle neonate Edizioni degli Animali, prefazione di Salah Stétié, noto intellettuale di origine libanese, con postfazione di Geraldina Colotti, che inserisce il testo nella cronaca degli avvenimenti recenti di Ventimiglia) Massignon parte da questa prospettiva di salvezza, o di perdizione, per arrivare a configurare precise proposte di gestione dello status di profugo, che egli non considera solo nella dimensione particolare del palestinese espulso dalla sua terra ma, più in generale, come «l’ombra di Dio sulla nostra vita, un’ombra che ci appare spesso come il nemico, quest’ombra è nera, sporca, essa contamina attraverso tutte le epidemie, indesiderabile, persino incosciente dei nostri sforzi per salvarla. Nell’ambito del diritto internazionale, noi possiamo sperare solo che il profugo sia trattato come se fosse al di fuori delle categorie attraverso un particolare riconoscimento sovranazionale della sua presenza permanente tra di noi».

Ecco l’intuizione, diremmo profetica, della «presenza permanente tra di noi» di questa figura alla quale, secondo Massignon, bisogna dare un significato escatologico: «In questi tempi di progresso, di moltiplicazione dei mezzi di trasporto, il problema dei rifugiati pone una questione di geografia dinamica e non statica, un problema di mescolanza dell’umanità tendente verso la sua unità finale». Il profugo diviene l’opportunità di realizzare questa «unità finale», un testimone della concreta realizzazione di quella meta-umanità che si ritrova a onorare il patto con la Creazione, con tutte le sue forme.
Il testo di Massignon è di una attualità sconcertante, non solo per la sua carica visionaria, ma per le sue implicazioni politiche, quando ad esempio parla della «sovranazionalità del pellegrino».