«Entra, entra, stiamo preparando i regali per papa Francesco». Khaled Sehfi corre da una stanza all’altra. «Sono ricami, fatti dalle donne del nostro campo. Siamo sicuri che li apprezzerà molto», ci dice, lanciando uno sguardo alla telecamera dell’agenzia americana Aptn che riprende tutto. Siamo nella sede del centro sociale Ibdaa, nella zona più alta del campo profughi di Dheisheh, tre-quattro km a sud di Betlemme. Una donna ci mostra un copricuscino, lavorato a mano, dove è stato ricamato il nome del papa assieme a quelli di Nelson Mandela e Martin Luther King. «Ci stiamo lavorando da un bel po’ di giorni, vogliamo che (il pontefice) resti contento, ci teniamo a fare bella figura», aggiunge Khaled. E’ un evento eccezionale per Dheisheh, campo per rifugiati molto noto, una roccaforte per lungo tempo della sinistra palestinese e protagonista della prima Intifada (1987-93) contro l’occupazione israeliana.

Bergoglio domenica pomeriggio, dopo avere officiato la messa davanti a 10 mila fedeli a Betlemme, sarà accolto nella sede dell’associazione Phoenix, dove in queste ore si sta ultimando la preparazione delle accoglienze al papa. Protagonisti saranno i bambini, un centinaio, che canteranno una canzone in arabo e un’altra in italiano. Poi reciteranno poesie e leggeranno proprio pensieri. Nell’ampia sala dove è previsto l’incontro con il papa sono state allestite delle gigantografie sulle pareti, che raccontano la Nakba, l’espulsione di 750 mila palestinesi dalla loro terra. Oggi, dopo 66 anni, i profughi sono 5 milioni sparsi tra Libano, Siria, Giordania, Gaza, Cisigiordania e Gerusalemme.

Già un papa ha visitato Dheisheh, il quarto campo per numero di abitanti tra quelli in Cisgiordania. Fu Giovanni Paolo II, nel 2000. Le parole che Wojtyla pronunciò in quell’occasione diedero speranza ai profughi di Dheisheh e ai loro discendenti – a quel tempo 9mila persone, oggi quasi 13mila – che da decenni vivono ammassate in 1,3 kmq, in misere case, in attesa che sia realizzato il loro “diritto al ritorno”, nelle terre e nei centri abitati dai quali furono cacciati o costretti a fuggire nel 1948. «Scegliendo di visitare Dheisheh, il papa ha voluto ridare speranze a tutti i profughi, noi sappiamo che i nostri diritti sono rimasti inalterati e che anche il Santo Padre ci sostiene», dichiarò nel 2000 Jamil Qumsieh, a quel tempo uno degli organizzatori palestinesi della visita di Wojtyla. E sicura di far ritorno «a casa» si disse, sempre in quei giorni, la 78enne Mariam Jibrini, madre di 12 figli e nonna di una ventina di nipoti, che conservava ancora la chiave dell’abitazione in cui viveva la sua famiglia nel grosso villaggio Beit Jibrin (Hebron), oggi un kibbutz israeliano.

Sono passati 14 anni da allora. Mariam non c’è più e nulla è cambiato per i profughi di Dheisheh e degli altri campi palestinesi. Restano intatti, generazione dopo generazione, il desiderio di tenere viva la memoria della Nakba e la voglia di non arrendersi all’oblio in cui si intendono fare precipitare i diritti dei rifugiati palestinesi sanciti dalla risoluzione 194 dell’Onu. Ora però i profughi non si accontentato delle visite occasionali di personalità illustri come papa Francesco. «Vogliamo tornare allo nostre case e ai nostri villaggi, se ciò è stato reso possibile per altri profughi allora deve esserlo anche noi», ci dice con tono convinto Maher, 25 anni, laureato in letteratura araba ma ancora disoccupato come molti dei giovani palestinesi della sua età. Maher ha ascoltato le parole anche di un altro pontefice, Benedetto XVI, che nel 2009 visitò il campo profughi di Aida, all’ingresso di Betlemme. Tra gli striscioni che inneggiavano al ritorno dei profughi nelle loro case e terre, con alle spalle il muro di cemento armato costruito da Israele in Cisgiordania, Ratzinger davanti alla gente di Aida chiese giustizia per i palestinesi e una soluzione per i profughi. Si disse vicino alle vittime dell’offensiva israeliana “Piombo fuso” lanciata pochi mesi prima a Gaza. Parole belle e apprezzate dai palestinesi ma che non hanno contribuito a trasformare la situazione sul terreno. «So che il papa non può obbligare Israele a lasciare le nostre terre – riconosce Maher – non è compito del Vaticano risolvere questo conflitto ma le sole frasi non mi bastano più, voglio che la mia vita cambi, voglio essere libero».

Se il centro Phoenix accoglierà il papa, è all’Ibdaa che i bambini si esercitano nel canto. Khaled Sehfi sorride soddisfatto mentre un gruppetto di ragazzini di tutte le età e di tutte le altezze danno sfogo alle loro doti canore. Ad un certo punto comincia “Bella Ciao”, cantata in lingua italiana. «Non è per il papa, è solo un omaggio ai tanti italiani che vengono qui a Dheisheh ad aiutarci. Per papa Francesco i bambini hanno preparato un altro brano in italiano. Non ti dico quale, perchè è una sorpresa», ci spiega Khaled che non smette di sorridere. Tutto procede nei tempi e nei modi stabiliti e lui è contento.

Adam Odeh, 13 anni, caschetto di capelli neri, occhi vispi, non era ancora nato quando Giovanni Paolo II visitò Dheisheh e ricorda vagamente la visita di Benedetto XVI al campo di Aida. Perciò è eccitato dall’idea di incontrare papa Francesco. «E’ il capo di una religione diversa dalla mia ma dice cose che mi piacciono – spiega – La mamma dice che sta dalla parte dei poveri e delle persone senza diritti, come noi palestinesi». «Spero di potergli dire – prosegue – che io odio il coprifuoco e i campi profughi e che voglio essere libero. Gli dirò anche di aiutare il papà del mio amico Ibrahim a lasciare il carcere (israeliano, ndr) e a tornare a casa. Voglio che Ibrahim torni a giocare a pallone con me e non sia più triste».