A Pont Aven, in Bretagna, c’era una locanda, l’albergo Gloanec, che dava stanze agli artisti e faceva loro credito per lunghi periodi. La voce giunse a Parigi e Paul Gauguin non poté non approfittarne: in bolletta, incapace di onorare i suoi debiti, fuggì dalla città e sbarcò in quel villaggio dove prosperava una comunità di pittori (molti americani e inglesi) che ricercavano soggetti «genuini» e dal sapore naïf. Gauguin aveva bisogno di ossigeno – soprattutto economico – e un soggetto valeva l’altro. Correva l’anno 1886: arrivato a Pont Aven, l’artista poté respirare a pieni polmoni, riprendere a dipingere, comprare i colori. Felice, scriverà alla moglie: «io qui vivo a credito».

Due anni dopo, rientrato da rocamboleschi viaggi in Martinica e Panama, ancora una volta senza atelier a Parigi né soldi per il sostentamento, vi tornerà per immergersi con tutto se stesso, nella «selvatica» Bretagna. Stavolta, l’ordinaria vita bretone assumerà un significato diverso. Gauguin stringerà i contatti con il giovanissimo Émile Bernard: lo aveva già conosciuto in precedenza, quando l’altro, 18enne, era arrivato a Pont Aven a piedi, da sognatore in preda alle sue visioni. Adesso, invece, era stato spedito lì dall’amico comune Vincent Van Gogh e caldamente raccomandatogli.

Bernard-Emile-Bretonnes-au-goemon-Saint-Germain-en-Laye-musee-Maurice-Denis-Le-Prieure-Photo-C
Emile Bernard, Bretonnes au goemon

Non sono soli. Intorno a loro gravita un composito gruppo di artisti, fra i quali c’è anche un altro spirito inquieto, Paul Sérusier. Insieme, si entusiasmeranno per le sculture popolari intagliate nel legno, le vetrate delle cappelle di campagna, la natura circostante, dando vita a un nuovo corso linguistico della pittura, quel sintetismo che univa ascendenze delle stampe giapponesi, ricerche di fonti primitive, semplificazione delle forme e riduzione della prospettiva nelle raffigurazioni di quella vita campestre che ogni giorno si svolgeva uguale a se stessa. A volte, le rivoluzioni artistiche nascono anche così: da incontri fortuiti, da persistenti indagini sull’ignoto, da un comune sentire di «eletti». Nabis si ribattezzarono infatti quegli artisti, profeti in ebraico, perché predicavano l’avvento di un’arte fuori schema: il «manifesto visivo» di quel moderno sentire panico, in sintonia la natura e con i suoi abitanti, si animò su un coperchio di una scatola da sigari.

Serusier__the_talisman
Paul Sérusier, il Talismano

Lì Sérusier (il ragazzo «à la barbe rutilante», questo il suo soprannome), quasi sotto dettatura di Gauguin aveva dipinto un paesaggio «nabi» scaturito dal Bois de l’Amour. È il celebre Talismano, oggi conservato al Musée d’Orsay, che l’esposizione al Palazzo Roverella di Rovigo lascia solo indovinare attraverso una stampa ai suoi visitatori, dato che l’opera non è solita viaggiare per mostre. Sarà il «teorico» della congrega – Maurice Denis – a spiegare che di fronte a quel paesaggio, lui e i suoi amici si sentirono finalmente «liberati da tutti gli ostacoli che l’idea di copiare arrecava agli istinti di pittore». Per Denis, quel pezzo diventerà una reliquia dai poteri quasi magici. Il gergo abituale del cenacolo bretone era spesso venato di accenti esoterici e mistici.

In realtà, a Pont Aven non nacque mai una scuola vera e propria, ma si intrecciarono diverse personalità che non amavano l’insegnamento ufficiale, pronte a radicalizzare la loro pittura, incerte fra tentazioni oracolari e una purezza compositiva che sfiora l’astrattismo. In qualità di iniziati, riconobbero nel più anziano Gauguin un pioniere della modernità: lui l’eccentrico maestro, anche quando scelse di trasferirsi a Le Pouldu, località balneare dove non c’è che orizzonte e mare. Tahiti era ancora lontana («le mie tele bretoni – dirà poi – sono diventate all’acqua di rose per via di Tahiti»).

La mostra di Rovigo I Nabis, Gauguin e la pittura d’avanguardia italiana (visitabile fino al 14 gennaio 2017, catalogo Marsilio), a cura di Giandomenico Romanelli, con la collaborazione dello specialista francese dei «profeti» André Cariou, ha due pregi e un difetto. Intanto, mette a fuoco (con una certa attitudine al risarcimento) una delle esperienze artistiche più dense di conseguenze per le avanguardie del primo Novecento: si consumò nell’arco di un decennio e, colpevolmente, è maneggiata con trascuratezza quando si vanno a rintracciare le matrici e radici che condussero al grado zero del linguaggio, agli albori del XX secolo. Il merito di questa restituzione di senso si trova anche in alcuni eccezionali prestiti, acquisiti per il tramite di Cariou dai diretti discendenti. Molti dipinti allestiti nelle sale non sono stati mai visti prima.

Oscar Ghiglia, La camicia bianca.m
[object Object]

L’altro punto a favore della rassegna (almeno in quanto a originalità) è che Romanelli prova a tendere un ponte tra francesi e italiani, allineando la stagione della scuola di Burano con quella bretone: scende verso il sintetismo di un Gino Rossi, poi devia bruscamente su quello di Oscar Ghiglia e Cagnaccio di San Pietro. Non sempre riesce a tirare le fila di quel rebus critico in modo cristallino e senza azzardi . Il percorso espositivo che esce dall’intuizione generante ha delle impennate ardite e poco convincenti in alcuni casi (San Pietro, Casorati, Cavaglieri), ma in altri invita a una riscoperta di artisti potenti, come Gino Rossi che davvero soggiornò in Bretagna nel 1909, mandando in soffitta la tradizione naturalista veneziana (Case a Burano, Fanciulla in fiore).

Gino-Rossi-Barene-a-Burano
[object Object]

Tra i «vizi di forma» della mostra, si potrebbe indicare invece la mancanza – a beneficio di una maggiore comprensione del pubblico – dell’introduzione nell’itinerario di alcune stampe giapponesi, a titolo esemplificativo della spinta ricevuta in direzione di un abbandono del verosimile e pittoresco . Ma, soprattutto, i Nabis vengono ricondotti al mero piano della pittura, lasciando da parte la loro inesausta attività nel campo grafico, in quello teatrale e nelle arti decorative.

L’artista Denis e il letterato Gide, per esempio, ebbero uno scambio epistolare profondo, producendo circa 230 lettere durante la loro vita e nel 1892realizzarono un libro d’arte, un’«opera» di scrittura e illustrazione (Le Voyage d’Urien). Nei testi in catalogo viene ricostruita l’intera storia dei Nabis e si percepisce la loro posizione anomala e sfaccettata all’interno della costellazione culturale dell’epoca. In mostra non viene dato seguito a questo loro agire a tutto campo, forse perché l’impianto che struttura l’esposizione ponendola in una linea fluida tra Francia e Italia rendeva difficile esulare dal contesto e dai raffronti obbligati. Quei «profeti giapponardi» (così veniva etichettato Bonnard) lavorarono però a stretto contatto con l’editoria, pubblicando le loro litografie sulla Revue Blanche, fecero scenografie per il Teatro d’Arte e s’impegnarono negli spettacolid’improvvisazione che venivano organizzati settimanalmente a casa di Paul Ranson.