«Si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio», canta De André in Bocca di Rosa. Capita così che dalla sicurezza della propria cattedra non pochi professori parlino e scrivano contro colleghi del passato che si sarebbero sottomessi a poteri autoritari e totalitari di diverso segno.

MA CHE COSA avrebbero fatto loro trovandosi in quei frangenti? Per l’Italia la risposta è facile: avrebbero giurato obbedienza al regime. È infatti quello che accadde quando nel 1931 il governo fascista impose ai docenti universitari una promessa di fedeltà alla quale si sottoposero praticamente tutti. Tutti tranne dodici professori che persero per questo cattedra e stipendio. La premessa di questa numericamente piccola ma politicamente importantissima resistenza fu il Congresso milanese della società filosofica italiana del 1926, che venne sospeso d’autorità per ragioni di «ordine pubblico».

La memoria di quel Congresso è rimasta viva ma i suoi atti non vennero mai pubblicati. Lo sono adesso a cura del centro internazionale Insubrico e del suo direttore Fabio Minazzi (Filosofi antifascisti, Mimesis, pp. 598, euro 38). Dopo una densa parte introduttiva, il volume presenta tutte le relazioni previste per quel Congresso, la cui anima politica e scientifica fu Piero Martinetti, che nel suo intervento ricorda «al filosofo il valore sociale dell’opera sua; la quale non soltanto ha le sue radici nelle condizioni particolari di un’età e riceve dalle circostanze storiche impulsi e indirizzi spesso ignorati e inconfessati, ma su questa età è chiamato anche a reagire per vie più o meno dirette e non può astrarsi da questo aspetto della sua attività senza rinunziare a un momento essenziale della sua grandezza».
Le altre relazioni affrontano argomenti numerosi e diversi: dalle prospettive materialiste al pensiero come attività estetica, dal significato della religione alla filosofia italiana dell’età moderna, dalle funzioni dello Stato all’insegnamento della filosofia nei Licei.

UNA DELLE RAGIONI di interesse del libro è la presenza di una ricca rassegna stampa – non solo italiana – che documenta quale eco ebbe il Congresso del 1926 nel così difficile contesto storico e politico in cui si svolse. Significativo è il modo in cui il Corriere della sera diede notizia il 31 marzo dello scioglimento del Congresso.
Dopo aver apprezzato la decisione del Rettore Mangiagalli di «porre termine ad uno stato di cose che minacciava di diminuire, non solo il decoro dell’Università, ma anche quel senso di rispetto che la coltura deve sapersi meritare di fronte all’opinione pubblica», ribadisce la necessità di impedire che sotto il pretesto di un Congresso di filosofi «si svolgesse una propaganda politica atta ad accendere gli animi alla discordia» e conclude con una lode rivolta a Benedetto Croce il quale invece con la sua relazione avrebbe dato un esempio «d’austera semplicità agli studiosi italiani». Da parte dei giornali più vicini al regime si ebbe un accanito e volgare attacco al «professorume» (Il Popolo d’Italia) e alla «manovretta antifascista sotto specie di discussioni astratte intorno alla libertà», (Il Giornale d’Italia).
Filosofi antifascisti non documenta soltanto il passato ma descrive anche il presente. La sua lettura trasmette un senso di inquietudine per le non poche analogie con quanto sta accadendo, in Italia e in Europa, alla scuola e all’università, sottoposte – scrive Minazzi – a ripetuti tentativi di «ridurre sistematicamente i docenti (universitari e medi) a meri burocrati, esecutori di direttive imposte ministerialmente, mentre sui luoghi di lavoro e di studio la partecipazione democratica è spesso erosa dal suo interno».

IL TENTATIVO di trasformare i docenti da ricercatori scientifici a funzionari dello Stato impauriti e prudenti può essere attuato in forme molto diverse, non soltanto con la violenza esplicita dei regimi fascisti ma anche con l’asservimento liberista del sapere a scopi puramente economicisti. Potrebbe essere questo un motivo di riflessione per il prossimo 25 aprile.