«La morte di Giulio Regeni è un attacco alla libertà accademica», lo scrive Neil Pyer dell’Università di Coventry. Il docente racconta direttamente della sua amicizia con Giulio e dei rischi che il giovane ricercatore si è sobbarcato nel partire per l’Egitto senza un adeguato sostegno delle istituzioni accademiche.

Neil spende parole di dolore per le condizioni atroci in cui è stato rinvenuto il cadavere. Solo ieri la docente dell’Università di Cambridge, Anne Alexander, aveva parlato degli ambienti sindacali che Giulio frequentava e dei contatti da lei fornitigli.

Ma l’intero mondo della ricerca e dell’accademia è insorto ieri per la morte di Giulio Regeni. In particolare, gli accademici Usa della Middle East Studies Association (Mesa) hanno inviato una lettera durissima alle autorità egiziane in cui chiedono di fare luce sulle cause della morte del dottorando italiano dell’Università di Cabridge con un’affiliazione con l’Università Americana del Cairo (Auc).

«Chiediamo al governo (egiziano, ndr) un’indagine imparziale e completa sulla morte di Giulio Regeni». «Il clima di repressione e intimidazione nel quale i colleghi in Egitto – egiziani e non – lavorano sta continuanda a peggiorare», si legge nella missiva indirizzata al president egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Nella missiva si fa riferimento direttamente all’«assassinio» di Giulio. Nei soprusi citati dagli orientalisti Usa si citano episodi di molestie e diniego di ingresso nel paese, interferenze grossolane nelle attività di ricercatori e facoltà, l’espulsione di centinaia di studenti e le condanne a morte di accademici.

Una presa di posizione così dura conferma una volta di più la rilevanza accademica delle ricerche di Giulio Regeni.

Una generazione di giovani ricercatori sempre più indifesi, costretti ad utilizzare pseudonimi e direttamente arrestati. È il caso di Michelle Dunne del Carnagie Endowment for Middle East Peace, arrestata mentre cercava di entrare in Egitto, per le sue ricerche che puntavano direttamente il dito contro il regime militare di al-Sisi. Provvedimenti simili sono stati presi contro ricercatori arabi.

Dal sindacalismo tunisino, ai movimenti operai egiziani, dalla sinistra filo-curda del Partito democratico dei Popoli (Hdp) in Turchia all’autonomia democratica di Abdullah Ocalan, messa in pratica in Rojava: le rivolte del 2011 non hanno solo aperto il vaso di pandora dell’islamismo politico in Medio Oriente ma anche dei movimenti di sinistra. Giornalisti attenti come Jack Shenker che ha appena pubblicato il libro

Gli egiziani una storia radicale lo raccontano benissimo. La rivolte del 2011 sono state una rivoluzione proletaria che poteva mettere in discussione l’assetto del capitalismo egiziano fondato sulla proprietà delle fabbriche da parte dell’élite militare.

Quest’anima sociale dei movimenti era profondamente preoccupante per la giunta militare e continua ad esserlo al tempo del regime militare di al-Sisi. Subito dopo le rivolte del 2011 i primi a sapersi organizzare sono stati proprio i sindacati indipendenti. E come spiegano benissimo studiosi come Joel Beinin e James Gelvin i maggiori cambiamenti politici non sono avvenuti in concomitanza con le grandi manifestazioni di piazza ma con i picchi negli scioperi delle fabbriche egiziane.

Questo faceva della ricerca di Regeni in Egitto un vero atto rivoluzionario per le condizioni di sicurezza e per l’importanza dell’analisi sui sindacati.

In altre parole studiosi come Giulio stavano indagando come il movimento che si stava formando in piazza Tahrir e le sue domande sociali siano state fermate con l’impiego di un populismo pseudo neo-nasserista.

Questa è stata la strategia che l’esercito ha scelto per prevalere sulla popolarità dell’islamismo policito che aveva vinto la sfida delle urne. Lo scopo era di neutralizzare il potenziale rivoluzionario dei movimenti di sinistra, operai e delle opposizioni. Ma sembra chiaro che di questo non si può parlare in Egitto e per questo il coraggio dimostrato da Giulio sarà essenziale per dimostrare la vitalità dei movimenti egiziani.