A tutti sarà capitato di trovarsi in imbarazzo dinanzi a chi chiede l’elemosina. Dare o non dare? È la prima domanda che ci si pone, ma è una domanda che ne implica molte altre: se pure siamo disponibili a dare, privilegiamo gli anziani? E come comportarsi dinanzi ai bambini? O alle madri con bambini? È il caso di far l’elemosina a quanti ne fanno una sorta di professione? E che fare dinanzi a disabili, storpi se magari sorge il dubbio che stiano millantando?
Nel mondo contemporaneo, a queste domande tendiamo a dare risposte individuali, magari basate su vaghe appartenenze politiche e sulle nostre idee in fatto di equità sociale. Non è stato sempre così, però: in alcuni periodi della storia europea, sullo statuto dei poveri e dei marginali, nonché sull’atteggiamento sociale nei loro confronti, è nato e cresciuto un dibattito nel quale la Chiesa, e al suo interno alcuni movimenti religiosi in particolare, hanno avuto un ruolo importante. Il tema è brillantemente indagato da Pietro Delcorno in Lazzaro e il ricco epulone. Metamorfosi di una parabola tra Quattro e Cinquecento (il Mulino, pp. 310, euro 30), un libro che prende le mosse dalla parabola evangelica: «Soltanto l’evangelista Luca riporta la parabola del ricco epulone, posta in una sezione sull’insegnamento pubblico di Gesù formata da due parabole e alcuni detti.
La prima parabola è quella solitamente indicata dal vicino redde rationem (16,2), utilizza i beni che che ha in gestione per guadagnarsi degli amici. L’altra è quella di Lazzaro, dove l’epulone, ignaro del pericolo, non aiuta il povero, venendo condannato per l’eternità (16,19-31)». Il dare un nome proprio al povero, contrariamente al ricco che resta anonimo, sarà motivo di riflessione fra gli esegeti del testo; così come la figura del povero sarà a volte associata, a volte distinta da quella dell’altro Lazzaro, il fratello di Marta e Maria resuscitato da Gesù; e tale sarà l’importanza di questo Lazzaro da farne un esempio di santità.
Se il brano è stato anche oggetto di interpretazioni allegoriche, è chiaro che quelle morali hanno prevalso, divenendo a partire dalla prima età medievale un soggetto comune nella predicazione. In questi primi secoli la condanna dell’epulone è senza mezze misure e procede di pari passo con la concezione negativa del denaro allora dominante; in una società in cui il denaro non circolava, era naturale che la Chiesa considerasse sospetto e quindi condannabile, in quanto frutto d’usura, qualunque tipo di guadagno non direttamente acquistato con il sudore della fronte e quindi guardasse con riprovazione al prestito (bandito come «usura») e ai commerci stessi; in una società nata essenzialmente per la difesa e basata su un’economia di sostentamento nella quale l’agricoltura stava al primo posto, era ovvio che il lavoro fosse concepito in modo essenzialmente servile. Con il passare dei secoli, l’esegesi del brano si modifica nel senso che sempre più si cerca di distinguere tra ricchezza e avarizia; la prima non è necessariamente sinonimo della seconda, il che è del tutto naturale in una società in cui banche e commerci si andavano trasformando da attività marginali, considerate con sospetto, a esser centrali nell’economia e dunque nella cultura stessa. È il cambiamento contro il quale si scagliava san Francesco, che dinanzi al trionfo del denaro sceglieva la povertà volontaria: così egli avrebbe dimostrato non solo di non cercarlo (come fanno i poveri che non sono tali per loro libera scelta), bensì di stimarlo «meno delle pietre».
E il povero? Anche la sua figura nel tempo assume caratteri meglio definiti, meno generici. E se il sospetto verso il ricco decresce, ecco che invece sembra accrescersi quello nei suoi confronti. Nella società altomedievale il termine pauper indicava una condizione molto ampia e non soltanto economica: erano pauperes coloro ch’erano privi di mezzi, certo, ma anche i malati, gli indifesi, le vedove e così via. Nell’età bassomedievale la paupertas sembra legarsi sempre più alla questione del denaro; e a partire dal Quattro-Cinquecento vediamo ormai netto il cambiamento. È il periodo al quale Delcorno dedica il maggior numero di pagine, incrociando l’omiletica, la trattatistica, gli exempla, le novelle, le fonti iconografiche.
Dal ricco panorama di testimonianze emerge come l’aumento dei poveri, dopo un secolo drammatico qual era stato il XIV, nonché la concentrazione delle ricchezze, portassero quasi inevitabilmente al sorgere di sospetti: così i moralizzatori dibattono su quali fossero le categorie di povertà da privilegiare. Su tutte quella volontaria dei frati; poi quelle dei «poveri vergognosi», ossia coloro che, caduti in povertà da una condizione migliore, si vegognano di mendicare; poi i malati e solo in ultimo coloro che chiedono l’elemosina per vivere, perché sono sospetti di frode o potenzialmente ladri.
Allo stesso tempo si qualificano le caratteristiche del povero, che dev’essere anche umile e paziente, ossia non ribellarsi allo stato in cui versa; anche questo sintomo della paura dei moti sociali che in quel tempo attraversavano l’Europa e che adottavano per le proprie rivendicazioni un linguaggio religioso di origine evangelica. Nasceva anche l’idea di razionalizzare le donazioni: non più direttamente elargite ai poveri, ma alle istituzioni preposte a occuparsene.
Vediamo insomma svilupparsi in questi due secoli molte delle idee e degli atteggiamenti che ancora oggi ci sfiorano dinanzi alla povertà. È importante parlarne, come fa Pietro Delcorno, per questa regione, ma anche per comprendere che in epoche diverse, precedenti alla nascita della modernità, altre sono state le strade percorse.