Solo pochi anni fa, nei pressi del Jardin des Plantes, in piazza della Bastiglia o in qualsiasi altro luogo pubblico era ancora facile imbattersi in un uomo che, ripiegato sulle ginocchia, si dava da fare con una sorta di inganno. Nella mani, teneva tre carte: il sette di cuori, il re di picche e l’asso di quadri. Le ultime due carte erano sovrapposte nella mano destra. L’altra era tenuta dalla mano sinistra. Lo scroccone, sollevando un poco le mani, faceva vedere l’ordine delle carte, poi le sollevava e le gettava una di qui, una di là, ma seguendo un ordine preciso. Poi, per ingannare l’occhio dello spettatore, le faceva scivolare una sotto l’altra. Rivolgendosi al suo compare, gli chiedeva infine di scoprire il re di picche. Il pubblico li seguiva e, avendo visto bene dove si trovavano le carte, avendo potuto seguire l’evoluzione e gli spostamenti, esclamava dentro di sé «è là». E non si sbagliava mai. Allora, il truffatore simulava sgomento per non essere riuscito nell’impresa di ingannare il «suo» pubblico. «Riproviamo», diceva, e riprendeva a sparigliare le carte invitando, stavolta, quel pubblico a puntare.

Solitamente il pubblico rideva, non osando infierire su un prestigiatore che reputava maldestro. Ma altrettanto solitamente, se ne usciva uno spettatore, non di rado un contadinotto ingenuo e candido, che ridacchiando accettava la sfida: «Scommetto venti monete che capisco dove si trova il re di picche». Il greco – perché, ricordiamolo, così nel nostro XIX secolo abbiamo deciso di chiamare chi truffa al gioco – accettava la sfida, mischiava le carte e… perdeva. La sfida, però, doveva continuare e il greco non avrebbe smesso di perdere, fino a che il contadinotto, soddisfatto, non si fosse ritirato. Il pubblico guardava, non finendo di ingannarsi.

A quel punto, accadeva che dei borghesi, che se ne stavano là ridendo di quel greco non meno che di quel contadino, decidessero di dare una bella lezione al nostro perdente nato. Si avvicinavano in tre o in quattro e pretendevano di giocare. Ignoravano, i poveracci, che il contadino – scarpe grosse, ma cervello fino – altro non era che un complice del nostro baro. Ignoravano che il baro aveva tessuto la sua tela e i fili che presto li avrebbero intrappolati erano fatti della loro stessa cupidigia. Con nuovi giocatori, anche la tattica di gioco cambiava. Lanciando a terra le sua carte, attuava una mossa che ne cambiava la disposizione senza che nessuno se ne accorgesse. Prima che le carte cadessero a terra. E il greco vinceva. Come capita ai perdenti mossi da cupidigia, questi non se ne andavano prima di aver preso un numero di rivincite era solitamente pari al numero di denari che questi signori potevano trasferire nelle tasche del baro. Capitava spesso che litigi e risse seguissero al gioco. Ma allora il contadinotto – candido fin che si vuole, ma dalle braccia forti e dal pugno facile – che se ne stava a osservare a distanza arrivava rapidissimo, copriva il compare e se la dava a gambe con lui e con tutto il denaro. Oggi, questo gioco è stato proibito, ma in Inghilterra, dei furfanti chiamati gamblers, praticano un gioco simile, ma lo praticano coi dadi e lo chiamano Thimble game.