Come tanti artisti anche Patti Smith ha vissuto un 2020 fatto di incertezze, appuntamenti rimandati, isolamento e tentativi di mantenersi in contatto con le persone attraverso la rete. Lo scorso aprile, il mese che secondo il presidente Trump avrebbe magicamente spazzato via la pandemia, Patti ha condiviso in un podcast la colonna sonora della sua vita. Si innamorò della musica a 7 anni quando, costretta anche allora all’isolamento per colpa della scarlattina, ascoltò alla radio per caso Un bel dì vedremo dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini. La melodia la rapì, l’intensità dell’interpretazione la stregò, i suoi sogni iniziarono a conoscere un obiettivo. Ma quell’epifania non la indirizzò verso l’opera, ben presto vennero altre passioni, Bob Dylan e Jimi Hendrix su tutti, e il rock divenne per lei prima uno stile di vita, poi una forma di espressione non sono legata alla musica.
Sì, perché Patti Smith ha incarnato forse meglio di molti altri l’idea che il rock non fosse solo uno stereotipo, sempre un po’ maschilista e machista, legato alla forma canzone, ma un atteggiamento culturale che poteva fondere poesia, letteratura, immagine e narrazione. È per questo che spesso è stata presentata, un po’ grossolanamente, come una «sacerdotessa del rock» (o del punk). Sfuggendo a classificazioni già note, la si è vista come una figura sciamanica, un’etichetta che oggi appare più riduttiva che lusinghiera. Bompiani pubblica in questi giorni l’edizione italiana del libro L’anno della scimmia, pubblicato negli Stati Uniti lo scorso settembre, ma edito qui in una versione integrata da un’ampia appendice che l’autrice ha ultimato proprio all’inizio della pandemia. È una collezione di immagini e narrazioni che ben condensa l’idea di creatività che ha sempre guidato Patti. A 73 anni la ragazza che si presentò al mondo con il verso «Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei» contenuto nel brano Gloria del 1975, oggi ha alle spalle una vita ricca di riconoscimenti, ma anche di perdite e di dolori. «Da quando sono invecchiata penso sempre più alla vita che alla morte», ha detto l’artista che non ha mai neppure tentato di nascondere i capelli grigi e le sue rughe. L’anno della scimmia del titolo è il 2016, l’anno in cui Smith, che compie gli anni il 30 dicembre, ha varcato la soglia dei 70. Un periodo raccontato attraverso scatti fotografici e riflessioni, viaggi on the road e divagazioni oniriche, scandito da addii, malinconie, disillusioni, apprensioni per un mondo che sembra avvicinarsi al baratro, ma anche animato da un’inesausta voglia di trovare gioie nei piccoli dettagli della vita e dal desiderio di creare, di scoprire, di conoscere.

La copertina de «L’anno della scimmia», il nuovo libro di Patti Smith

PERDITE
Al volgere del nuovo anno Patti apprende dell’ictus che ha colpito Sandy Pearlman, produttore, manager, critico musicale e poeta. È qualcosa di più di un amico, è quello che capì nei primi anni Settanta che quella ragazza, che teneva reading nei locali alternativi di New York e ai tempi viveva al Chelsea Hotel con il fotografo Robert Mapplethorpe, aveva la stoffa per guidare una sua band e diventare una regina del rock. «Mi aveva detto che avrei dovuto fare la cantante di un gruppo – ricorda nel libro – ma io mi ero messa a ridere e gli avevo risposto che avevo già un lavoro in una libreria». L’agonia dell’amico che morirà alcuni mesi dopo è la ferita che la accompagna in un girovagare che la porta a confrontarsi con ulteriori dolori come quello per la sofferenza di un’altra persona con cui ha un legame profondo: lo scrittore, drammaturgo e attore Sam Shepard. La Sla lo ha paralizzato, ma è alle prese con un’ultima opera letteraria e le confida: «Muoiono tutti. Ma a me sta bene. Ho vissuto la vita che volevo vivere». Vecchie cicatrici del passato scorrono come in filigrana: la malattia e la morte della sua prima vera anima gemella, Mapplethorpe, che morì di Aids nel 1989 (un’amicizia narrata nel libro Just Kids del 2010), la precoce perdita dell’amato marito Fred «Sonic» Smith avvenuta nel 1994 che Patti ricorda con una «vertigine di dolore» nel giorno dell’anniversario di matrimonio, tirando fori timidamente da sotto il letto una scatola che contiene l’abito da sposa. La poesia, la musica e la scrittura sono anche un modo per affrontare e superare queste memorie. Perché, seppur malinconiche, le parole di Patti Smith, come le sue canzoni, sono piene di ispirazione e di vita. «Eppure continuo a pensare che qualcosa di meraviglioso stia per accadere. Magari domani», scrive.

TRASFORMAZIONI
Il prossimo novembre saranno esattamente 45 anni da quando uscì quello che rimane il suo capolavoro, l’album d’esordio Horses. La poetessa bohémienne aveva raccolto il suggerimento di Pearlman e si era trasformata in cantante e autrice. Aveva assorbito anni di frequentazioni con musicisti e artisti e produceva una raccolta che rielaborava la canzone d’autore rock degli anni Sessanta, la distillava nell’esperienza newyorkese di band come i Velvet Underground e la traghettava nell’era del punk, preparandola per la new wave. Patti Smith divenne simbolo di una nuova era e di una nuova femminilità nel rock. In quattro anni pubblica altri tre album: Radio Ethiopia, Easter e Wave, alieni a logiche commerciali, ma capaci di produrre classici come la potente Ask the Angels, la furiosa Rock N Roll Nigger, la poetica Dancing Barefoot e l’immortale Because the Night donatale da Bruce Springsteen. Gli anni Settanta si chiudono per Patti all’insegna di una fama che nessuno si sarebbe mai immaginato. Because the Night è diventata una hit internazionale, a Firenze riempie uno stadio e il suo concerto diventa un evento epocale per la musica dal vivo in Italia. Dopo quell’exploit si ritira, si dedica alla famiglia e riemerge nel 1988. La sua People Have the Power coglie ancora una volta lo spirito dei tempi e anche oggi risuona come un inno di comunione e di speranza.
L’anno della scimmia che inizia con il suono delle onde dell’oceano pacifico in California non è un racconto autobiografico riservato ai fan, ma un diario intimo di schegge di memoria e un carnet di viaggio carico di poesia, immaginazione, malinconia e slanci emotivi. Le figure che hanno ispirato Patti Smith come musicista ritornano anche qui: Jack Kerouac, William Burroughs, Jerry Garcia. Ma in questo girovagare fisico, onirico e culturale compaiono a vario titolo anche Roberto Bolaño, Belinda Carlisle (la cantante delle Go-Go’s), Fernando Pessoa, Maria Callas. Parole e immagini in bianco e nero si alternano, trasfigurando un’insegna di un motel in un ingresso a un mondo dei sogni e ristoranti vintage aperti 24 ore in luoghi di incontro dove davanti a un «toast integrale al formaggio, una fetta di torta di mirtilli e una tazza di caffè nero» si può riflettere sul senso della vita. È in fondo l’epica e la poesia del rock: piccole storie che diventano universali, una quotidianità così apparentemente ordinaria da offrire spunti di eternità. Come cantava proprio Bruce Springsteen: «Giuro che ho trovato la chiave dell’universo, nel motore di una vecchia auto parcheggiata». Il nuovo epilogo del libro nasce dalla necessità di constatare come i brutti presagi dell’anno della scimmia si siano concretizzati in qualcosa di ancora più temibile. Ma c’è ancora un palco su cui salire e una canzone da cantare, con l’impressione che in fondo anche queste disavventure vadano vissute e superate nel segno della musica. «Ho 73 anni e nella mia vita ho visto tutta la storia del rock » ha detto Patti Smith rievocando la sua colonna sonora personale. Ma non è stata solo testimone. Ne ha fatto parte.