La giuria presieduta da Juliette Binoche ha premiato i film migliori (forse tralasciando qualcosa, come il film mongolo Ondog), Synonyms di Lapid, Grace a Dieu di Ozon (Gran premio della giuria), I was zuhause, aber di Schanelec (miglior regia), il doppio premio, attore e attrice protagonisti a So Long My Son il film di Wang Xiaoshuai (molto piaciuto alla critica) arrivato alla fine (quando decisamente si sono viste le proposte migliori), che nell’intimità infelice di una famiglia, una coppia che ha perduto il figlio, fa scorrere trent’anni di storia della Cina, tra Rivoluzione culturale e capitalismo del presente, tra illusioni disattese, gesti individuali, trasformazioni sociali che sfuggono a chi le vive.

Un «verdetto» pieno di equilibrio e sintonizzato – nei premi a due registe donne, Angela Schanelec e Nora Fingscheidt (premio Alfred Bauer)– coi propositi della Berlinale che quest’anno della parità di gender ha fatto uno dei suoi punti fermi sin dall’inizio. Non solo: entrambe le registe sono tedesche, una, Fingscheidt, all’opera prima, System Crasher, il ritratto di una ragazzina che manda in tilt il sistema sociale tedesco, quasi una rivincita Kosslick verso le critiche di non sostenere abbastanza il cinema nazionale più indipendente.

La Berlinale numero 69 finisce così, tra commozione – il saluto dopo quasi vent’anni del direttore uscente Dieter Kosslick, appunto – e rimpianti, quello della giuria di non aver potuto vedere il nuovo film di Zhang Yimou, cancellato dal programma (era previsto in concorso) all’ultimo momento. L’Italia porta a casa il premio alla sceneggiatura (a Giovannesi, Saviano e Maurizio Braucci) per La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi (già in sala) che sembra anche un po’ un premio a Saviano – autore del romanzo su cui si basa il film – il quale lo ha dedicato alle Ong che salvano le vite nel Mediterraneo. E ha poi aggiunto: «Raccontare la verità nel nostro Paese è diventato molto difficile».

Orso d’oro dunque al bel film di Lapid, regista israeliano legato alla Francia, la cui autobiografia balena qua e là tra le righe, e nei vagabondaggi del protagonista, un ragazzo israeliano deciso a rompere radicalmente col proprio Paese fino rifiutarne la lingua parlando solo francese. Rimasto nudo nelle prime scene per un furto, si «riveste» metaforicamente (e concretamente) con gli abiti ragalati da una coppia borghesissima installata al piano di sopra. Lui vorrebbe scrivere, ma non ha l’ispirazione, mentre Yoav – questo il nome del protagonista – è pieno di storie: mitiche, narrate dai genitori, vissute, immaginate.

La sua lingua di adozione però è composta dal vocabolario, le parole mancano di «esperienza»: di cosa è sinonimo la parola «ebreo» ? E di cosa stato, democrazia, pace, rabbia? Nella sua determinazione il ragazzo pensa a un paese immaginario che non esiste più, che non risponde all’immagine che ha di sé scivolando come il resto del nostro mondo in un nuovo autoritarismo. È un film politico Synonyms, nel modo in cui si confronta con il contemporaneo, nella sua ricerca di una forma che al di là del soggetto ne sappia cogliere le dissonanze.

Una caratteristica questa comune agli altri film premiati – con la sola eccezione di System Crasher, molto più convenzionale e sostenuto dall’incontrollabile energia della piccola attrice protagonista. E più in generale alla selezione berlinese che predilige – in sintonia col proprio pubblico – i temi «forti» e ben riconoscibili. La differenza è che tutti questi film, sia che parlino di pedofilia nella chiesa (Ozon) che di ragazzini di camorra (Giovannesi) o di nevrosi e spaesamenti del presente (Schanelec) interrogano le proprie immagini su come raccontare la realtà, lavorano sul cinema e sulle sue potenzialità. Guardano nel profondo, oltre le superfici.