Si prova una strana sensazione in questi giorni a leggere dagli Stati uniti certa stampa italiana, quella su cui si apprende che la democrazia americana scoppia di salute dopo aver brillantemente resistito alle spallate del populismo. La «democrazia fondante» del moderno occidente non sarebbe mai stata così in forma come dopo aver debellato l’assalto trumpista. La democrazia ha trionfato alle urne e nei tribunali; i repubblicani hanno preso atto e alla fine difeso la sacra istituzione nazionale. Tutto a posto: si riapre con i cauti riformisti che rimettono la palla la centro dopo lo stress test passato a gonfie vele.

LE ULTIME TRE SETTIMANE sono state il culmine di una stagione uscita da una novella distopica di Philip K Dick, ma questa versione per fantascienza la supera. Perché la verità è che nella Casa bianca permane asserragliato un presidente mitomane e squilibrato che scarica quotidianamente raffiche di tweet sul paese, ululando sull’illegittimità delle elezioni rubate. La sua squadra di legali è sguinzagliata in improbabili conferenze stampa pur mentre perde la quasi totalità delle cause intentate in tribunale con cento pretesti.

Ma malgrado l’ossessiva retorica del winning, le sentenze favorevoli non sono necessariamente lo scopo dell’operazione. Il manuale semmai è quello del flood the zone – il precetto bannoniano di ingolfare il sistema di tali e tante falsità da rendere impraticabile il discernimento del vero e una percezione condivisa del reale. Di calcificare insomma una frattura «epistemica» che promette, al di la di chi occuperà fra due mesi lo studio ovale, di rendere insanabili le divisioni di una società sull’orlo del precipizio e di fatto inoperabile la democrazia.

Non conta in questo ambito trovare le schede gettate nei cassonetti o quelle contraffatte coi nomi dei morti – l’importante è che un numero sufficiente di persone ne abbiano la percezione che viene fomentata. Non importa che i Proud Boys e le numerose formazioni eversive incitate da quattro anni di retorica suprematista (che pure continuano ad arruolare nei ranghi reduci, agenti di polizia e fanatici delle armi da fuoco) non abbiano ancora eretto le barricate.

IL PUNTO È LA MILITARIZZAZIONE mentale e politica (weaponize) di una massa di fedelissimi adepti oltre ogni possibile mediazione. Il punto insomma è di assicurare il sabotaggio definitivo del processo democratico. L’avvelenamento dei pozzi rimane la metafora più adatta per lo strascico tossico della demagogia seminata da Trump fra i 70 milioni di accoliti, i cui effetti sono destinati a svilupparsi nel tempo.
Il progetto è quello di una dose fatale di polonio più che di una molotov sul paese. La delegittimazione martellante delle elezioni, e quindi della presidenza Biden è una tossina che opererà maleficamente – forse fatalmente – su una democrazia che esce, non fulgente ma in rianimazione, appesa a un filo, stremata dagli effetti cumulativi di quattro anni di falsità sparse come sale sui campi del processo politico.

IL CARTELLO DI UN TRUFFATORE palazzinaro ha rimestato a proprio favore gli istinti più cupi di una nazione violenta e razzista. Trump ha portato alla Casa bianca fanatici suprematisti come Stephen Miller affidandogli un progetto eugenetico che ha prodotto bambini imprigionati e isterectomie forzate su detenute. Ha messo al comando della politica estera un fanatico evangelico apocalittico che benedice l’annessione di Netanhyahu e poi patrocina l’incontro fra questi e l’assassino Bin Salman in Arabia Saudita – gli effetti di quel summit a delinquere sono diventatai evidenti l’altro giorno con l’esecuzione “camorrista” di Mohsen Fakhrizadeh, ultimo esempio del sabotaggio preventivo, questo su scala geopolitica.

Stiamo assistendo, negli ultimi giorni del regime, alla logica conclusione di ciò che avevano annunciato dall’inizio il muslim ban e il rifiuto di rendere pubblici i conti di famiglia: una dilagante illegalità e la saldatura fra incompetenza e cattiva fede. Ora il trumpismo si appresta a lasciare in eredità e 70 milioni di sostenitori di questo progetto – fautori dell’imposizione della volontà della minoranza nel nome delle menzogne del capo.

IL FALLIMENTO più mastodontico certo è raccontato dal quarto di milione di morti compresi quelli nelle fosse comuni in vista delle torri scintillanti idi Manhattan, testamento di una gestione criminale della crisi. Il virus non ha solo contagiato 13 milioni di americani: ha profondamente infettato il corpo politico del paese. E i sintomi devono ancora manifestarsi appieno. Sono destinati ad emergere durante la nuova amministrazione col colpevole apporto di un ostruzionismo repubblicano che farà leva sul fanatismo diffuso per promuovere l’agenda neoliberista che del populismo si fa scudo. E che sarà sempre pronta a invocare strategicamente la liberazione del Michigan o altri slogan del repertorio demagogico entrato nel linguaggio politico.

È DIFFICILE INOLTRE immaginare uno scenario più paradigmatico dei danni fatali del populismo che lo scontro venturo fra scienza e negazionismo, tempesta perfetta che rappresenta, la mutazione genetica di una democrazia ormai in piena disfunzione epistemica ed in balia delle abissali disuguaglianze che caratterizzano la tarda finanziarizzazione e l’affermazione della gig economy come sistema.
IL PROSSIMO ARRIVO dei vaccini e le problematiche connesse alla loro distribuzione, sono destinati ad esacerbare tutte queste problematiche.

La concomitanza dell’emergenza sanitaria, della catastrofe ambientale che incombe e di una crisi economica abissale fornirà l’occasione per l’agitazione delle fazioni no-vax e di uno scontro che riproporrà un’eredità populista fondamentalmente incompatibile con la democrazia. Per gestirla occorrerà uno sforzo monumentale da parte di un governo che parte già dimezzato e di una politica in brandelli e forse mortalmente ferita.

Sostenere che l’elezione di Joe Biden alla Casa bianca rappresenta la rinascita della democrazia americana trionfante equivale a dichiarare finita la fame nel mondo perché l’indice Dow Jones ha superato quota 30.000.