Non c’erano solo bandiere irachene e poster con il volto del leader religioso Moqtada al Sadr: giovedì pomeriggio per le strade di Sadr City la gente marciava tenendo in mano cartelli con immagini dei leader politici iracheni che grondavano sangue dalla bocca. Perché è a loro, ministri e parlamentari, che viene imputata l’ultima terribile ondata di violenze, una serie di attentati che negli ultimi tre giorni hanno ucciso oltre 130 persone tra Baghdad, Ramadi e il nord.

La rabbia è incontrollabile: gli attentati dell’Isis di mercoledì contro i quartieri sciiti della capitale hanno dato nuova spinta al movimento popolare che da mesi chiede un nuovo governo e una seria lotta alla corruzione di Stato, considerata la ragione dell’incapacità strutturale a difendere il paese dall’avanzata islamista. Sadr City, cuore del movimento sadrista – un milione di persone che vivono nel quartiere più povero della capitale, abbandonato negli anni del regime sunnita di Saddam – è il nervo scoperto della rivolta che ribolle sotto la cenere.

«Quanto successo è una reazione dei politici perché siamo entrati in parlamento – dice all’Ap la 38enne Umm Abbas, che ha perso suo fratello nell’attentato di mercoledì – Ci avevano minacciato pubblicamente, promettendo una campagna di arresti. Ma sembra che abbiano preferito un’esplosione». «Il governo dovrebbe prendere misure per proteggere la gente, ma non offre nulla», gli fa eco Sheikh Kadhim Jassem.

Opinioni che non sono solo della base: ieri, dopo un lungo periodo di silenzio, è tornato a parlare il Grande Ayatollah al-Sistani, massima carica religiosa sciita in Iraq. Ha condannato gli attacchi e ne ha affibbiato la responsabilità al governo, colpevole «di aver chiuso le orecchie alle parole dei propri consiglieri».

La denuncia (che preoccupa Baghdad per la considerevole capacità di mobilitazione dell’Ayatollah) arriva a tre mesi dalla decisione di al-Sistani di sospendere i tradizionali sermoni del venerdì, come forma di protesta per l’apatia dei partiti politici a prendere misure contro la piaga della corruzione. Una piaga che produce effetti devastanti non solo in termini di sicurezza ma anche di tenuta sociale del paese: ai morti si aggiungono feriti gravi che non riescono ad accedere a cure adeguate per la mancanza di risorse mediche e finanziarie, finendo per pesare su famiglie già povere alle prese con disoccupazione e salari bassi.

Anche per questo erano centinaia giovedì a marciare, a gridare la propria ira contro l’ex premier al-Maliki e a chiedere le dimissioni del ministro degli Interni al-Ghaban (membro delle potenti milizie Badr, legate all’Iran) e dell’attuale primo ministro al-Abadi. In molti paventano la formazione di milizie locali, di quartiere, per difendersi da soli. È il timore del governo centrale: la creazione di nuovi gruppi sciiti e un maggiore dispiegamento delle milizie già attive che vedrebbero incrementare ulteriormente il proprio potere a scapito del debole esercito nazionale.

Potrebbe però accadere vista l’incompetenza che pervade le forze di sicurezza, epurate della loro componente baathista e sunnita dall’occupazione Usa e mai realmente ricostituitesi nonostante addestramenti da 30 milioni di dollari cominciati nel 2006. E sebbene siano state aumentate le forze di sicurezza nella capitale, nonostante checkpoint militari la circondino, i controlli sono sporadici e superficiali. E a Baghdad entra di tutto, comprese cellule ben armate e organizzate dello Stato Islamico.

Ne è un esempio l’ennesimo attacco, compiuto ieri dall’Isis nella città sciita di Balad, a nord di Baghdad: 13 persone sono state uccise e 25 ferite da tre uomini che hanno aperto il fuoco con armi automatiche in un fan club del Real Madrid, per poi farsi saltare in aria in un mercato vicino, uccidendo 4 poliziotti. Per arrivare a Balad, 40 km dalla linea del fronte con i territori controllati dall’Isis (che poco dopo online ha rivendicato l’azione), il gruppo ha attraversato tre checkpoint militari. Ma non è stato mai fermato né controllato.

Il giorno prima, giovedì, due kamikaze si erano fatti esplodere alla periferia di Ramadi, capoluogo della provincia ci Anbar, liberata alla fine di dicembre dall’esercito di Baghdad: 17 soldati uccisi. Nelle stesse ore nel mirino finiva il sobborgo di Abu Ghraib, ad ovest della capitale: altri due poliziotti ammazzati da un kamikaze.

E l’Isis non si ferma: alla strategia del terrore aggiunge un’enorme capacità di adattamento e un’intelligente strategia militare che fa da contraltare alla lentezza e macchinosità dell’esercito governativo. Mentre a Ramadi agivano i kamikaze, altri islamisti occupavano la strada di collegamento tra la città e la sua zona nord, il distretto di Thirthar, tagliando così la normale via di transito delle truppe di Baghdad.