Al sempre ricco programma di mostre ed eventi proposto da Villa Medici, a Roma, si aggiunge l’ampia e sofisticata personale degli artisti francesi Anne e Patrick Poirier intitolata ROMAMOR. Curata da Chiara Parisi e visitabile fino al 5 maggio, appare come una sorta di viaggio dantesco, dai più oscuri abissi catastrofici a una luminosa possibilità di salvezza.
I Poirier sono strettamente legati a Villa Medici: nel 1967 vinsero il Grand Prix de Rome e dal 1968 trascorsero quattro anni a Roma, proprio a Villa Medici, durante i quali decisero di lavorare assieme. Da «archeologo» e «architetto» (definizioni con cui sono soliti definirsi l’uno e l’altra) decisero di mutuare l’anomala temporalità romana, fatta di reperti di passati diversi che si fondono nel presente, proponendosi di scovare e proporre nelle loro opere tracce nascoste di storie remote.

La mostra a Villa Medici inizia infatti con l’installazione La Palissade/Scavi in corso (2019), una sorta di citazione della siepe leopardiana de L’Infinito: «Quali lavori in corso si celano dietro la palizzata?», ci chiedono gli artisti, ponendoci di fronte a un «ostacolo/input» per la visione che ci conduce nello spazio della Cisterna, dove la maquette di una veduta apocalittica di rovine, Finis Terrae (2019), con la sua scritta luminosa ci avvisa che Un monde qui se fait sauter lui-même ne permet plus qu’on lui fasse le portrait (2001).
Tale apocalisse prosegue nella prima sala, dove Le monde à l’envers (2019) mostra un aeroplano sorvolare due globi terrestri – simbolo delle menti dei due artisti –, inseriti entro una lumiera disposta sottosopra a evocare un bombardamento su Palmyre (2018), veduta aerea dell’omonimo sito siriano devastato dall’Isis nel 2015.
Segue la devastazione di un luogo glorioso del passato, la Domus Aurea, che i Poirier assimilano all’inconscio in quanto detentore di oblio. Dopo averne rilevato la pianta, hanno costruito vari spazi riempiendoli delle reliquie incenerite di ciò che essa avrebbe dovuto contenere, tra cui «La biblioteca nera».
Dalla biblioteca di Nerone a L’incendie de la grande bibliothèque (1976) il passo è breve: si tratta di un’opera realizzata a carbone che fa riferimento al mito della biblioteca reale di Alessandria, anch’essa incenerita, di cui si dice che riunisse tutto il sapere e la memoria del mondo.
Se è vero ciò che dicono i Poirier, ovvero che «ogni costruzione funge da modello per una particolare utopia», allora si spiega perché da tali visioni apocalittiche possa nascere Ouranopolis (1995), una città celeste che, sospesa al soffitto, consente di intravedere, attraverso minuscoli orifizi-lenti di ingrandimento disposti tutt’intorno, quaranta sale di una biblioteca-museo utopica ma dove già si percepiscono i primi segni di degrado.
Una dimensione onirica si sviluppa anche lungo la grande scalinata delle antiche scuderie. Nonostante ne Le songe de Jacob (2019) gli angeli siano fuggiti lasciando a terra solo le piume e il serpente ctonio abbia lasciato una traccia del suo passaggio, una scala fosforescente indica come ancora possibile il sogno di un’ascesa da questa critica situazione.

L’autoritratto degli artisti (Rétrovisions, 2018), il mappamondo sgonfio di Surprise Party (1996) e la croce di impronte lasciate sulla carta di maschere di divinità antiche (Dépôt de mémoire et d’oubli, 1989) ci accompagnano verso i quattro plastici bianchi di siti in rovina di Lost Archetypes (1979), nonché ai disegni vegetali fissati nella cera di Journal d’Ouranopolis (1995), alle immagini dei petali «tatuati» di Fragility e Ruins (1996) e alla tenda di Sparire nel Silenzio (2019), che sembra tornare a evocare la siepe leopardiana dell’opera posta all’inizio della mostra.
Nel Piazzale di Villa Medici troviamo invece Le Labyrinthe du Cerveau (2019): il disegno di un cervello umano che si cancellerà sotto i passi dei visitatori, evidenziando l’aspetto effimero delle creazioni umane. Con i suoi due emisferi, il cervello è simbolo del lavorare bicefalo dei Poirier, ma anche dei meccanismi della nostra psiche atti a produrre memoria o oblio.
Dopo aver superato la sedia in granito di Siège Mesopotamia (2012-’15) e gli anonimi occhi in gesso di Regard des Statues (2019), nell’Atelier Balthus possiamo vedere un’opera realizzata a Villa Medici nel 1971, costituita da stele di carta a partire dai calchi delle Erme che costellano i viali del giardino della Villa, unite a libri-erbari con annotazioni e disegni, e a medaglioni di porcellana.
Il neon che dà il titolo alla mostra, ROMAMOR (2019), conclude il percorso espositivo rendendo esplicito omaggio alla città fondativa per i Poirier. In tale percorso, ben spiegato dal catalogo edito da Electa, ogni opera innesca un processo che dal fascino per la forma porta a una riflessione sulla sua devastazione causata da catastrofi o anche solo dall’oblio. Ma non c’è tragicità né nostalgia nella visione delle rovine: anzi, c’è la speranza che proprio grazie a esse si possano immaginare mondi migliori, rivolgendoci al futuro ma sempre con un occhio al passato.