Lo aveva affermato il giorno prima tutto il mondo dell’associazionismo dei diritti umani, sindacati, partiti e perfino esponenti di enti locali convocati da Cild, Antigone e Amnesty International Italia davanti all’ambasciata d’Egitto a Roma (e ringraziati ieri dalla famiglia Regeni), e lo ha confermato anche la procura di Roma: il corpo martoriato di Giulio Regeni porta la firma di torturatori addestrati. Non criminali comuni. Un omicidio – questa è l’unica certezza degli investigatori italiani – maturato nel quadro delle attività di ricerca del giovane dottorando friulano. Da escludere anche qualunque legame con i servizi segreti italiani o stranieri.

I referti completi dell’autopsia condotta dal prof. Vittorio Fineschi arriveranno al pm Sergio Colaiocco la prossima settimana, ma evidentemente il quadro appare già abbastanza chiaro per smentire i continui depistaggi provenienti dal Cairo. E alcuni punti fermi possono – e devono, a questo punto con urgenza – essere messi in chiaro pubblicamente.

Punto primo: secondo gli inquirenti italiani, chi ha infierito su Giulio Regeni con «sevizie e crudeltà» fino ad ucciderlo sono persone abituate, se non addestrate, alla tortura. La procura esclude qualunque riferimento ad ambienti di criminalità comune. Men che meno a quelli legati allo spaccio e all’abuso di droghe, come vorrebbe l’ultimo depistaggio proveniente dagli apparati di Al-Sisi.

E d’altronde – punto secondo – le analisi tossicologiche sul cadavere confermano che Giulio non faceva uso di sostanze stupefacenti, come confermato al manifesto anche dagli esperti che hanno eseguito l’esame autoptico al Policlinico Umberto I. Carabinieri e polizia hanno potuto accertare anche che Giulio, dottorando all’Università di Cambridge e visiting scholar all’American University del Cairo, conduceva uno stile di vita molto tranquillo e aveva un rapporto saldo con la fidanzata (il che esclude, se proprio fosse necessario, qualunque “pista” passionale).

Punto terzo. La procura romana ha una sola convinzione: il movente dell’omicidio va ricercato nell’ambito della sua attività di ricerca. Che, va ricordato, verteva principalmente sui sindacati indipendenti e sui movimenti sociali egiziani dal 2011 in poi.

Ma – punto quarto – dall’analisi del computer del giovane, consegnato al pm dalla famiglia, e dall’intera attività istruttoria, gli inquirenti di Piazzale Clodio avrebbero escluso che Regeni avesse alcun legame con i servizi segreti, né italiani, né stranieri. Nessun contatto con persone «equivoche», nessuna informazione sarebbe stata raccolta per altri o altri fini se non per le sue ricerche, che peraltro erano pubbliche. Studi sui quali si basava il noto articolo, pubblicato postumo dal manifesto, scritto sulla più grande assemblea sindacale tenutasi, l’11 dicembre 2015, negli ultimi tempi nel Paese.

Ma – punto quinto, e fondamentale – secondo quanto trapelato dagli ambienti investigativi italiani (ma non è chiaro se su indicazioni della procura di Giza o del ministero dell’Interno egiziano) Regeni non era schedato in Egitto, né risulterebbero intercettazioni precedenti al giorno della sua scomparsa, il 25 gennaio 2016. Il che, se fosse confermato, porterebbe a pensare che il sequestro di Giulio non sia avvenuto in modo mirato, ma nell’ambito delle retate di massa che hanno caratterizzato il quarto anniversario delle proteste di Piazza Tahrir. E che solo in seguito sia stato identificato come persona scomoda, e perciò  torturato e ucciso.

Le prove nelle mani del Ros e dello Sco sono però ancora poche. Non potendo contare sull’esame del telefonino che non è mai stato ritrovato, né sui dati delle celle telefoniche che le Autorità egiziane non hanno ancora fornito, i pm romani hanno richiesto da tempo ai social network le password utilizzate da Regeni, per poter ricostruire almeno una parte degli spostamenti attraverso la geolocalizzazione. Nessuna risposta. Come nessuna risposta è venuta ancora dal Cairo alle richiesta inoltrate da tre settimane dal pm Colaiocco di visionare i verbali delle testimonianze e gli atti del fascicolo aperto dalla procura di Giza, il referto dell’autopsia egiziana e i filmati delle telecamere di sorveglianza. In queste condizioni però si rafforza una domanda: come si può escludere che Giulio non fosse già “attenzionato” dai servizi egiziani?

La procura sembra dire che non può più attendere per avere «la collaborazione e la disponibilità» che «l’Egitto ha immediatamente dato», come ha ricordato ancora ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni su Radio 1 Rai. «Il problema è che questa disponibilità deve essere resa più efficace», ha aggiunto il ministro. Il messaggio è chiaro: «Escludo nel modo più totale che l’Italia si possa stancare di chiedere giustizia. Non è una pretesa a termine, che possa sfumare quando cesserà l’attenzione. Ammesso che cessi. Perché – ha concluso Gentiloni – credo che il governo egiziano debba essere consapevole che su questa vicenda l’attenzione internazionale non è destinata ad attenuarsi».