La ministra più importante del governo Renzi interrogata per due ore dai procuratori di Potenza. Una condanna contro Total per una vicenda legata a Tempa rossa che arriva, improvvida, proprio mentre il segretario-premier si scaglia contro i magistrati di Potenza accusandoli di non concludere mai le loro inchieste. Il governatore della Puglia che rimbecca il gran capo spiegandogli che Tempa rossa non è un’opera pubblica ma privata, e anche in questo caso proprio mentre quello si autoaccusava ironicamente del reato di «sblocco delle opere». Due mozioni di sfiducia, una dell’M5S già nota e di inaudita durezza persino per quel movimento, l’altra di tutta la destra imminente, che verranno inevitabilmente discusse in tempi rapidissimi al Senato. La proposta di Si di una commissione d’inchiesta su Tempa rossa. Infine, ciliegina sulla torta al veleno, la minoranza dem che, a sorpresa, si rivela più battagliera del previsto. L’uragano Tempa rossa non è destinato a esaurirsi in pochi giorni.

Maria Elena Boschi è stata «ascoltata» per oltre due ore sull’emendamento che ha sbloccato il progetto. Il turno della sua ex collega Federica Guidi arriverà nei prossimi giorni. Sui contenuti dell’interrogatorio il procuratore Gay e i pm Basentini e Triassi, che come titolari dell’inchiesta lo accompagnavano nella trasferta romana, non si fanno sfuggire una parola, al di là della formula quasi rituale «sentirla era necessario». Che è comunque più sibillina del classico «atto dovuto». Ma la vicenda parla da sé. L’interrogatorio era previsto e annunciato, ma non con una simile tempestività e urgenza, non prima ancora di ascoltare Guidi, e forse neppure così lungo. Come segnale, tutto è tranne che tranquillizzante per il capo del governo e la sua ministra numero 1.

La sentenza di Potenza è un altro nuvolone nero. L’inchiesta non è quella che ha coinvolto l’ex ministra Guidi, riguarda i lavori per la costruzione dello stabilimento situato tra Potenza e Matera, ma a essere condannati in primo grado a sette anni sono stati gli ex dirigenti locali di Total e il presidente della Puglia Emiliano non ha esitato a definire le due inchieste «praticamente sulla stessa cosa». In sé la condanna significa poco e non smentisce l’accusa di Matteo Renzi («Fanno inchieste sul petrolio ogni quattro anni, e non arrivano mai a sentenza»), dal momento che il reato andrà in prescrizione ancora prima dell’appello, fra pochi mesi. Ma è un pessimo prologo per l’inchiesta più importante e attuale. Ci si mette persino la Confindustria di Potenza: «Siamo a favore di Tempa rossa. Ma qualche dubbio ci sta venendo».

E’ del tutto naturale che le opposizioni, e in particolare l’M5S, colgano al volo l’occasione. Grillo, dal suo blog, annuncia che oggi i parlamentari del suo movimento saranno a Tempa Rossa «per una ispezione» e profetizza: «Trivellopoli è solo all’inizio». La mozione a 5 stelle è durissima. Parla di «comitato d’affari che occupava la scena e il retroscena per garantire gli interessi di rilevanti compagnie petrolifere e di società legate a soggetti in rapporti personali con membri dell’Esecutivo». Accusa il premier di «condotta gravemente omissiva». Sinistra italiana, che al Senato non ha i numeri per presentare una sua mozione, muoverà accuse altrettanto pesanti e si avvia a chiedere una commissione d’inchiesta su Tempa rossa. La destra momentaneamente riunificata, nonostante le resistenze iniziali di Berlusconi, non potrà che muoversi nella stessa direzione, pur evitando di puntare il dito contro le trivelle.

Per giorni e giorni il governo sarà messo pubblicamente e fragorosamente sotto accusa con capi d’imputazione politicamente pesantissimi: da un lato il nepotismo, ombra già addensatasi con il caso di Banca Etruria, dall’altro la connivenza e il servilismo nei confronti delle grandi compagnie petrolifere. Gli effetti sul referendum ci saranno di certo, anche se Renzi è ancora convinto che raggiungere il quorum sia impossibile e non a caso ieri è tornato a usare la carta Romano Prodi: «La penso come lui, secondo cui sarebbe un suicidio per il Paese». Ma comunque vada il referendum il danno d’immagine per l’esecutivo «del cambiamento» è già micidiale.