Per far luce sulla presunta trattativa tra lo Stato e mafia è importante sentire come teste anche il capo dello Stato. Ad affermarlo, nell’aula della corte d’Assise di Palermo, è il pubblico ministero Nino Di Matteo. La volontà della procura siciliana di ascoltare Giorgio Napolitano come teste era annunciata. Il nome del presidente della Repubblica figura infatti nel lungo elenco di testi presentato all’inizio del dibattimento dai magistrati che da anni indagano sulla trattativa che sarebbe avvenuta tra parte delle istituzioni e Cosa nostra per mettere fine alle stragi mafiose dei primi anni ’90. Un elenco in cui, oltre al nome del capo dello Stato, figurano anche quelli di una lunga serie di politici della prima repubblica e del presidente del Senato, ex capo della procura nazionale antimafia, Piero Grasso. Sarà adesso la corte d’Assise di Palermo a decidere sull’ammissibilità o meno di Napolitano come teste al processo. Un’eventualità che ieri l’avvocatura dello Stato ha respinto ritenendo che non risponda ai criteri di «pertinenza e della non superfluità» richiesti. E l’avvocatura ha detto no anche all’acquisizione delle registrazioni delle telefonate tra Mancino e D’Ambrosio, considerando quelle conversazioni coperte dalla stessa riservatezza che tutela il capo dello Stato.
Per la procura la testimonianza di Napolitano è considerata importante per fare chiarezza sui timori espressi in una lettera dall’ex consulente giuridico del Colle Loris D’Ambrosio al capo dello Stato. Si tratta di una lettera scritta il 18 giugno 2012, in cui D’Ambrosio esprime il timore di essere stato usato «come l’ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo di indicibili accordi», con un riferimento ai fatti accaduti tra il 1989 e il 1993. Ora che D’Ambrosio è morto, per la procura quindi Napolitano è l’unico in grado di chiarire in cosa consistessero realmente i timori a lui espressi dal suo consulente giuridico.
Ma dal capo dello Stato i magistrati siciliani vorrebbero avere delucidazioni anche sulle telefonate intercorse nel 2012 tra l’ex ministro degli interni Nicola Mancino e D’Ambrosio, morto un anno fa. Due, in particolare, sono le chiamate all’attenzione dei magistrati siciliani. Nella prima, effettuata il 5 aprile del 2012 Mancino, che è imputato al processo per falsa testimonianza, chiama il Quirinale all’indomani della lettera inviata dal Colle al procuratore generale della Cassazione dopo che l’ex ministro degli Interni aveva messo per iscritto alcune rimostranze. In quell’occasione D’Ambrosio disse al Mancino: «Il presidente condivide la sua preoccupazione… cioè diventa una cosa…inopportuna». E Mancino: «Questi si dovrebbero muovere al più presto». In un’altra telefonata, invece, D’Ambrosio e Mancino parlano della nomina di quest’ultimo a ministero degli Interni a posto di Vincenzo Scotti, avvenuta nel luglio del 1992. Un avvicendamento che, per un altro pm del processo, Francesco del Bene, «è avvenuto per conseguire il risultato di un ammorbidimento della politica criminale al fenomeno mafioso, avvicendamento che si era reso necessario perché il ministro Scotti aveva dato prova di una strategia rigorosa». La nomina di Mancino ai vertici del Viminale, secondo l’accusa, avrebbe invece rappresentato la svolta data dal governo alla sua politica di contrasto della mafia dopo le minacce ricevute.