Giorgio Manganelli si laureò in «pinocchiologia», commenti, letture, interpretazioni che hanno incrementato la rete interstuale postcollodiana, e in «pinocchiesco» (vedi Maiello, «Riga» 25).

Lo prova quanto lui stesso scrisse prima e dopo il fatidico Pinocchio: un libro parallelo del 1977, l’odissea cubica del nostro eroe. Su Pinocchio – «forse l’unico mito classico che ci viene dall’Ottocento» – egli meditò a lungo. «Infantile ma non dimidiato Odisseo, Pinocchio ha un itinerario, un percorso da seguire, ‘fatiche’ da superare; come si addice ad un eroe, il compimento dell’itinerario è il presupposto della morte» («Carlo Collodi: Pinoccchio», «L’Espresso», 1968). Il suo destino è già segnato, una morte che sarà suicidio. «Per molti di noi la conclusione di Pinocchio – la trasformazione del burattino in ‘ragazzo perbene’ – fu il primo trauma intellettuale».

All’inizio è il torso di un Mercurio minore, un fauno musico forse, lo scrittore stesso in tempi in cui l’autore è dato come innominabile, inesistente. «Neghittoso, fantastico, ingenuamente furbo, Pinocchio partecipa a un’antica figura insieme meno e più che umana; il “trickster”, il dio astuto e sciocco, buffone, avventuroso, infimo ma irriducibile ribelle, di natura eternamente canagliesca».

Vi ritorna in un’altra recensione («La morte di Pinocchio», «L’Espresso», 1970), a spiegare quella patetica, inevitabile fine: «Ucciso dalle sue buone azioni, Pinocchio si sveglia ‘ragazzo come tutti gli altri’. È una conclusione drammatica. Quella frase casuale – e la grandezza del libro è spesso affidata ad invenzioni e frasi casuali – tocca il dilemma infantile: accettare insieme la diversità e la solitudine, o perdere l’una o l’altra». Cita più volte la frase terribile che il bambino ricorderà tutta la vita: «spezzare il cuore dei genitori», il prezzo del suo destino di figlio. È evitato ogni commento, come nel caso dell’altrettanto crudele: «Chi genera compie un sacrificio umano, quello stesso che venne compiuto su di lui».

Siamo stati avvertiti che il commentatore non parlerà delle parole che si leggono, ma di tutte quelle che vi si nascondono. Quindi niente giochi di parole, solo uno sguardo alla nuda vita – che non rientra se non per caso nell’ordine combinatorio del Pinocchio parallelo.

Nell’intervista che gli fa a caldo Daniele Del Giudice (Paese sera, 1981), Manganelli premette «È stato il mio nume tutelare». Poi sciorina una serie di analogie parallele su quel testo come luogo magico, registro di molteplici ribellioni, esatta forma dell’errore, e sul protagonista, un alchimista capovolto, un mentitore che ricostruisce la realtà, un conquistatore malcerto del proprio destino. «Lo scrivere non è una professione dell’Io – dichiara l’autore –. Attinge a zone anonime della persona». Arriva l’ovvia conclusione: «Collodi – ossia Carlo Lorenzini, “il borghesuccio di Pescia” – non può essere l’autore di Pinocchio». Pinocchio cannibalesco non risparmia i suoi genitori: deve rivestirsi della loro natura mortale e abbandonare, ahimè!, la sua natura metafisica.

Sala-studio dell’appartamento di Manganelli a via Senafè, Roma, quartiere «africano». Foto, courtesy Lietta Manganelli e Quodlibet Edizioni
Sala-studio dell’appartamento di Manganelli a via Senafè, Roma, quartiere «africano». Foto, courtesy Lietta Manganelli e Quodlibet Edizioni

 

Più lunga ed elaborata è la «Conversazione con Giorgio Manganelli» di Carlo Rafele, registrata nel 1979. Inevitabilmente si arriva alla definizione del libro parallelo. «Nel caso del Pinocchio, per esempio, io mi trovo dinanzi ad un testo in cui, senza aggiungere nulla di mio, posso combinare infinitamente gli elementi che mi vengono incontro. Posso usare il testo come un detective userebbe il delitto … La dimensione di ciò che sta dietro alla parola è infinita ed è questa dimensione che regge e fa funzionare ‘letterariamente’ la parola». Rafele mette sul terreno questioni care a Manganelli e lo indirizza verso le ardite cime della teologia negativa. Ottiene in risposta una serie di aperçus sorprendenti: la teologia non si preoccupa di comunicare, la letteratura ha perduto semanticità e si colloca in uno spazio nullificato, consapevole da sempre «della propria qualità mistificatoria, della propria qualità di inganno, di frode, di allucinazione, di visione e quindi della sua origine intrinsecamente ‘notturna’, della sua collocazione periferica». E per finire la letteratura non è insegnabile.

Antonio Gnoli andò a trovare il «manguro» quando uscì Amore (Il Mattino, 1981). Dopo qualche vigoroso scambio su altipiani concettuali già esplorati, Gnoli osserva i Pinocchi in fila sul tavolo e va all’attacco del famoso commentatore: «Sembra di capire che la sua idea di commento è molto distante da quella usuale … Lo scrittore, insomma, non conta nulla». Manganelli, perfettamente a suo agio, risponde con abbondanza di particolari. «Lei ha usato il termine ‘infernale’. Dov’è l’inferno, per uno scrittore, oggi?» incalza l’intervistatore, che intende battersi fino all’ultimo sangue; e l’ottiene: «Come tutte le parole, direi, è nelle parole. Noi possediamo due forme di inferno. Una è l’inferno veramente terribile: la perdita della coscienza che la parola porta in sé. L’altra è la coscienza che la parola è il luogo deputato dell’inferno e che quindi nel linguaggio della parola noi dovremmo cercarlo, perché già ci siamo».

A Pinocchio Manganelli si era affezionato da piccolo, al primo incontro con il volume rosso rilegato in oro e il burattino in copertina. La sua trasformazione umana significò per lui «la perdita di qualcosa di irrecuperabile. Mi turbava profondamente, e mi rendeva furibondo» (Paese Sera, 1981).

L’intervistatrice, Livia Giustolisi, è commossa: «È vero, lo ricordo anch’io come un fatto tristissimo e mi veniva da piangere».

«Altroché, io piangevo in maniera fragorosa a vedere questo burattino ciondoloni sulla sedia, e nessuno sa che fine farà. Non ho letto da piccolo per esempio Gian Burrasca, l’ho letto solo da adulto, a differenza di quasi tutti i miei coetanei che lo preferivano a Pinocchio chi sa perché…». Questa è un stilettata diretta a me, che gli avevo tanto parlato del mio amore per lo screanzato Gian Burrasca. Purtroppo lo so solo adesso – e solo adesso so che in una certa occasione mi aveva chiamato Bianca, il mio nome alla rovescia. Mi rendo conto di non avergli saputo spiegare la mia ripugnanza per le trasformazioni fisiche di Pinocchio (il naso, le orecchie d’asino, ecc.), perché la malattia mi aveva insegnato che il corpo cambia e in peggio, senza preavviso. Inoltre Pinocchio, inerme e candido, mi ricorda ancora oggi mio padre tra la Volpe (mia madre) e il Gatto (me), e successivamente tra gendarmi vari, sempre per fortuna salvato dalla sua paziente Fatina («Il gatto è di ferocia semplice, la Volpe di ironica efferatezza»).

Questo mio segreto increscioso ha gettato una lunga ombra su Pinocchio, e le sue successive incarnazioni. Non potevano comunque convivere due eroi troppo in contrasto per un bambino: il drammatico, mitopoietico Pinocchio e lo sconnesso, minimal Gian Burrasca, rivoluzionario domestico.

Comunque Giustolisi aveva visto giusto. Su quel magnifico tavolo in via Senafè, ricoperto di una pesante coperta abruzzese, stavano tre Pinocchi in legno, uno grande e due piccoli. «Quello lì, il più grande – e lo indica con particolare amore – l’ho comprato io quando sono stato in pellegrinaggio a Collodi, gli altri me li hanno tutti regalati e vivono qui con me». Seguono altri due Pinocchi di bassa statura, «mentre altri sono sparsi qua e là: negli angoli della casa, inaccessibili». Chi erano i donatori, anzi le donatrici? Osservavo, sospettosa, i Pinocchi che crescevano di numero in continuazione. Il mio cupo mutismo lo divertì, e prese a cantare la famosa aria di Leporello per tutta risposta. Non mi scoraggiai, e non smisi di contrastare l’influenza di quel pezzo di legno promiscuo e ingannevole che in forma di matita nera H2 elegantemente appuntita, minimo «Pinocchio» stregonesco, teneva fermamente in pugno quando leggeva Sallustio (il preferito). Non tanto per scrivere postille a margine – questo lo faceva spesso in gioventù – quanto per puntare una riga indimenticabile, da incasellare subito a eterna memoria. Occorrevano temperamatite per quella assidua manutenzione della prescelta, e io – un po’ Jago -– gli regalai sollecita una infernale macchinetta con manovella da fissare al famoso tavolo. Fissarla, poi provarla, sradicarla furiosamente e gettarla non so dove, fu un attimo. Tutto cambiò quando lasciò via Senafè per via Chinotto. Il tavolo fu regalato al bravo falegname che l’aveva costruito, la coperta forse alla fedele Attilia, e i Pinocchi finalmente dispersi scomparvero dal mio orizzonte.