L’ultima fatica di Piero Brunello, Colpi di scena, non è un libro come gli altri: è il precipitato di quattro decenni di studi, il libro di una vita dedicato a un periodo e a un contesto per i quali l’autore nutre una non dissimulata passione, «la rivoluzione del 1848 a Venezia» (così recita il sottotitolo del volume, edito dalla veronese Cierre, pp. 440, euro 18). Come segnalato da molti predecessori – e interlocutori – di Brunello (Paul Ginsborg, Adolfo Bernadello e Renzo Derosas), a metà Ottocento Venezia era la terza città dell’Impero asburgico, contando ben 120mila abitanti (oggi, per inciso, sono poco più di 50mila); era un centro importante, per ragioni economiche e politiche, ma segregato spazialmente nei «sestrieri» e ancor più nelle loro articolazioni interne; la città popolare non si mescolava a quella borghese e aristocratica, ma si concentrava fra Castello, Dorsoduro (inclusa la Giudecca) e Cannaregio; esteso su quasi 50 ettari, l’Arsenale, insieme manifattura d’armi e cantiere navale, fu a lungo la più ampia area produttiva accentrata d’Europa e dava lavoro a migliaia di «arsenalotti».

NELLA PRIMA PARTE, un libro nel libro, a partire dalle testimonianze coeve si passano in minuziosa rassegna i sei giorni della rivoluzione veneziana di marzo, parallela alle «cinque giornate» milanesi che seguirono l’insurrezione di Vienna. Non si tratta di un ritorno alla storia «evenemenziale», giustamente esecrata dalla grande trasformazione storiografica novecentesca che si suole riassumere sotto l’egida delle «Annales» di Bloch e Febvre: e non avrebbe potuto trattarsi di un simile regresso, se si considera che Brunello è stato fra i padri e resta fra i più lucidi interpreti della «nuova» storia sociale in Italia.
Seguire giorno per giorno, ora per ora, evento per evento il «farsi» della rivoluzione a Venezia non espone alla cronachistica. Al contrario, permette di leggere i mutamenti in corso e di identificarne i nodi irrisolti, perché Brunello non si limita a una prospettiva dall’alto, ma compone i diversi punti di vista senza trascurare le storie individuali della gente comune, in una prospettiva anti-eroica che si riallaccia esplicitamente al Meneghello dei Piccoli maestri. Uno dei temi conduttori della prima parte è infatti l’irruzione dei subalterni in piazza S. Marco, che mise in discussione la rappresentazione del «popolo» imperante.

LA MASSA INSORGENTE, protagonista delle giornate di marzo, avrebbe dovuto rimanere sotto lo stretto controllo del notabilato, in continuità con il mito della Serenissima, teatro di uno scambio d’antico regime fra paternalismo degli abbienti e deferenza dei proletari, un tessuto di clientele ed elemosine spacciato per egualitarismo. Le minacce, gli assalti alle carceri, l’uso della violenza, esecrate anche se decisive nel mettere in fuga gli austriaci nel 1848, diedero sostanza all’incubo di una città in mano a nullatenenti pronti al saccheggio, al quale si rispose con il controllo del territorio da parte di borghesi in armi (la Guardia civica) e con l’emarginazione della presenza popolare nelle rappresentazioni narrative e figurative della rivoluzione.

A GUIDARE la partecipazione dei popolani ai moti di piazza fu l’odio per la polizia e per l’esercito, agenti di una pesante repressione e di continue provocazioni. La rabbia popolare ispirò la rivendicazione della fine del sopruso istituzionalizzato, che integrava l’obiettivo borghese della Costituzione e ne sostanziava i diritti, fornendo un’altra accezione alla parola «repubblica», che a Venezia si era finora tradotta in nostalgie «serenissime», in progetti liberali e in adesioni all’idea nazionale italiana. Anche se il Quarantotto popolare veneziano non raggiunse l’autonomia di quello parigino, Brunello ribadisce che furono le classi subalterne a «fare» la rivoluzione, che non fu determinata né dal governo provvisorio né dai circoli attorno a Manin e Tommaseo.
Il senno-di-poi, ricordano acute pagine di Colpi di scena, non dovrebbe schiacciare il senso del possibile: quell’incertezza del presente restituita dallo sguardo storico in tempo reale e «rasoterra» (per citare la definizione della microstoria di Jacques Revel). Oggi sappiamo com’è finita quella rivoluzione, ma allora la presenza popolare rappresentò sia la leva del cambiamento che una grande paura, non solo per gli austriacanti, ma anche per chi sosteneva la repubblica borghese.

BRUNELLO CITA il celebre capitolo di Guerra e pace nel quale Tolstoj ricorda, con la vivida metafora della battaglia, che i protagonisti storici non colgono mai il senso d’insieme delle vicende a cui partecipano. Avrebbe potuto anche ricordare il precedente Marx del Diciotto Brumaio, scritto nel 1852 proprio per comprendere l’esito tragico della rivoluzione parigina: «Gli uomini fanno la loro propria storia, ma non in modo arbitrario, in circostanze scelte».
La «tradizione» che per Marx «pesa come un incubo sul cervello dei viventi» non è però solo quella dei modelli rivoluzionari del passato (che ispirarono al Moro le metafore teatrali, ricorrenti anche nel testo di Brunello, sin dal titolo), ma anche la più pesante continuità dello Stato, a cui è dedicata la seconda parte del volume. La novità del dilagare del linguaggio nazionale pose da subito il problema del rapporto fra dimensione europea del Quarantotto, con conseguente «affratellamento» di popoli in simultanea emancipazione, e produzione del «nemico» della patria: a Venezia la solidarietà con gli Slavi oppressi (Tommaseo, per fare un solo esempio, era dalmata, di Sebenico) si affiancava alla germanofobia.
Ricorda opportunamente Brunello che l’odio antiaustriaco, esacerbato dal contesto bellico, produsse dall’alto epurazioni dei funzionari e dal basso iniziative contro le spie (e spesso anche contro i compagni di lavoro), ma si risolse in un’accentuazione della sorveglianza su tutti i cittadini e nella repressione dei democratici radicali. Il nuovo governo aveva sancito la continuità degli uomini alla direzione della polizia, che fu anche parziale continuità di pratiche. Allo stesso modo la censura fu abolita ma si continuò a chiedere la licenza di stampare e si sancì la libertà dei culti senza conseguenze nel quotidiano, come rivela la mancata emancipazione ebraica.

LADDOVE IL QUARANTOTTO evidenziò invece la profondità del mutamento in corso fu nella sfera dei rapporti fra uomini e donne. I primi recuperarono per via insurrezionale un onore militare infangato dall’immagine diffusa in Europa dell’«italiano imbelle» (dunque «effeminato»). Al contempo, occuparono gli spazi pubblici, ove allestirono una messa in scena patriottica e liberale per gli sguardi delle custodi della nazione, le loro madri, mogli e sorelle, che erano tanto esaltate quanto escluse dal proscenio. Mentre le popolane continuavano a cantare arie volgari e oscene e a godere di una relativa autonomia, le donne delle classi medie e alte furono condannate alla separatezza e al controllo. Nel sacrificio di quelle donne al servizio dei legami familiari, Brunello legge opportunamente un sintomo di insicurezza maschile dinanzi alla crescente presa di parola femminile, una dinamica che ben conosciamo tuttora.

Le oltre quattrocento pagine di Colpi di scena sono ben più ricche di quanto non possa racchiudere una recensione. Le rivendicazioni quarantottesche furono europee, ma costante fu anche il rischio di divergenza fra il richiamo all’indipendenza nazionale e l’appello per la rappresentanza e i diritti. Fra marzo 1848 e agosto 1849 a Venezia mai si vide un’aperta contrapposizione fra la repubblica dei borghesi e quella dei popolani: le persistenti forme di controllo notabilare riuscirono a evitarla, ma non a colmare la crescente distanza fra le classi sociali. Il libro di Piero Brunello ribadisce che il Quarantotto cementò politicamente l’alleanza aristocratico-borghese e che lo fece nel segno del timore nei confronti del popolo. Come a Venezia, dove la rivoluzione dei subalterni pose fine al durevole mito dell’armonia sociale cittadina.