Sul lago tra nubi, afa, notti stellate sono comparse le prime facce da «vacanzieri» tout court, pochi, con la tranquilla sicurezza di chi riesce a affrontare un ferragosto svizzero, mentre le valigie dei festivalieri cominciano invece a prendere la via di casa (o di altre vacanze, chissà).
Athina Rachel Tsingari si è fatta conoscere prima come produttrice e «complice» degli esordi di Yorgos Lanthimos, poi come regista, e il suo sorprendente Attenberg (2010) ha vinto la Coppa Volpi per la migliore attrice, Ariane Labed, alla Mostra di Venezia. Insomma quell’onda nuova del cinema greco che ha scosso gli anni Duemila inventando forme, mondi, linguaggi nel periodo della crisi senza utilizzarla, almeno nei risultati migliori a «garanzia» delle proprie immagini che pure con acutezza si avventurano nel sentimento del presente.
Chevalier ci porta nel mondo degli uomini, non cavalieri «senza macchia e senza paura» ma uomini semplici e insieme quasi archetipi in quella loro combinazione di nevrosi universali.

Su uno yatch polanskiano di lusso che appartiene a un maturo medico il gruppo passa il fine settimana immergendosi nei fondali blu. Palestrati, attenti alle calvizie e ai rischi del rilassamento con annessa pancetta o agli eccessi che possano far sbalzare il colesterolo, si impegnano con cura nella messinscena di sè. L’unico fuori dal coro è il fratello di uno degli ospiti ciccio, pieno di paure, non sa andare sotto acqua, è rimasto attaccato alla mamma con cui vive. Insomma uno sfigato.

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Di loro non sappiamo nulla, professione, legami, finché in una serata durante un gioco dei tanti uno non accetta di perdere e lancia la sua sfida: un nuovo gioco, «Cavalieri». Ovvero quel guardarsi di soppiatto, con la coda dell’occhio per giudicare l’altro in silenzio diventerà un vero e proprio esame pubblico. Tutti contro tutti a annotare difetti fisici, cattive maniere, come si dorme e se si russa, come si mangia, se e quanto si resiste al freddo, i rapporti con le mogli e, naturalmente, la tenuta del pene. Si dice: fare la pipí più lontano ma qui non siamo tra galli, e in fondo nemmeno il pene – chi ce lo ha più grosso o chi scopa meglio o è impotente o sterile e via dicendo – è il punto centrale anche se conta tra maschi come proiezione della competitività.

Nel gioco entrano vecchi rancori, affiorano legami e desiderio di essere riconosciuti dal dottore, chiaramente il Capo, voglia di rivalsa nei suoi confronti, gelosie e tradimenti, meschinità, colpi bassi e ruffianerie specie sui più deboli, lo sfigato che non ha nulla da perdere ma che serve per un voto in più. Non è però un cinema che cerca la crudeltà fine a sé stessa (penso all’abietto Miss Violence per rimanere al cinema greco, anch’esso alla Mostra di Venezia) quello di Athina Rachel Tsingari (anche sceneggiatrice insieme a Efthimis Filippou) o il compiacimento della sua estremizzazione (spesso totalmente gratuito) che piace tanto ora. Le sue sono geometrie del paradosso e del grottesco che però non ridicolizzano mai i personaggi; lei ne spia i tic e le ossessioni accompagnata dalla bravura dei suoi attori complici pienamente nella regia come lo erano le due protagoniste di Attenbergh di cui Chevalier è quasi il contrappunto: il primo esplorava un femminile messo alla prova nel suo romanzo di formazione, corpo, sesso, desiderio, relazione col maschile a cominciare dal Padre teneramente moribondo.

Nel laboratorio di mascolinità che è Chevalier – Tsingari lo definisce un «buddy movie» senza amicizia – tira fuori l’essenza dei tempi, la necessità di misurarsi con una rappresentazione di sè stessi (il cortile dei social) che riflette una sorta di perenne competizione, col narcisismo della forma, la paura della vecchiaia, che orrore scoprirsi allo specchio un capello in meno, non reggere l’immersione, non sedurre abbastanza, e che dire dei momenti di impotenza?

E questo maschile va al di là del genere, la cui forma riconoscibile sono i modi delle vanità, il suo esercizio del potere che lo spazio chiuso dello yatch e di una vacanza «meravigliosa» fanno affiorare con progressiva violenza va al di là del genere appare piuttosto come la regola – l’ordine? – del nostro mondo, antico fino ai coltelli e al patto di sangue, adattabile a ogni era e a ogni sistema. Non è dunque l’equazione potere/maschio che interessa Tsingari, i protagonisti tutti uomini funzionano per un’identificazione ancora diffusa – uomo/potere. Il fatto è che in questo western da camera non ci sono i «buoni» e i «cattivi» e nemmeno l’eroe solitario, il sognatore e l’utopia. Fuori dal mito siamo all’essenza del nostro tempo, nei suoi sistemi sociali, economici, finanziari, di neo-sopraffazione. Possiamo vederci la Troika, la Bce, la Merkel, il balletto meccanico dell’Europa, o dell’indifferenza e della fine di una solidarietà in rivolta, è un’immaginario aperto quello di Tsingari. Lei dice che la situazione del suo Paese entra nel film anche se spera che non lo si veda solo come un’allegoria della cronaca di questi anni. C’è infatti molto di più, con la sensibilità sottile di cogliere l’assurdo, e di trasformare il nostro tempo in una sfida di immaginario. Non è poco, no?

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Un regista, una ragazza, due possibilità. Va male comunque ma può andare male con rancore e può andare male con la dolcezza della malinconia. Right Now, Wrong Then è il nuovo film di Hong Sang-soo, magnifico, un puro momento di piacere su cui è persino difficile dire qualcosa tanta è la sua perfezione. Non si riesce infatti a restituirne la grazia del racconto e di una messinscena che a ogni film percorrendo la stessa poetica riesce a sorprendere e a esplorare un territorio nuovo – in gara come il film di Tsingari, chissà perché non selezionato al Lido.

Siamo in una cittadina coreana, Suwon, quella provincia di stradine, bar, ristoranti che abitano i personaggi del regista? Il protagonista, un cineasta autoriale molto conosciuto, incontra una giovane aspirante artista, la invita a prendere un caffé , poi a mangiare il sushi, bevono moltissimo e l’uomo le nasconde di essere sposato, critica il suo lavoro, è sgradevole con i suoi amici che lo denudano agli occhi della ragazza – è un seduttore, ha una moglie si dice che ha storie con tutte le sue attrici – e aggressivo col pubblico (molto poco) e con il critico che lo ha invitato – «Sono tutti una massa di idioti».

Seconda possibilità, l’uomo è sempre sposato ma è sincero, non prova a ingannarla per portarla a letto, pure se non le nasconde i suoi sentimenti, i due si ubriacano anche qui ma l’uomo riesce a farsi perdonare gli eccessi, gentile con tutti, la proiezione andrà benissimo e la ragazza promette che vedrà tutti i suoi film. Tutto giusto, tutto sbagliato, le due possibilità che sono come un gioco di specchi mettono in scena le variazioni del narrare, e insieme del cinema. Cosa è vero? Cosa è fasullo? Cosa è «realtà»? E cosa «finzione»? E soprattutto cosa funziona meglio con chi guarda, assecondarne le aspettative happy ending o mostrare un personaggio nella sua «verità»?

Leggero, col tocco di una comicità universale, Hong Sang-soo continua la sua esplorazione dei movimenti sentimentali, in una commedia umana di cui traccia variazioni e costanti. Il senso è forse nello spazio tra questi bordi, in quell’ineffabile ritorno di circostanze e di una casualità mai «tutta giusta e tutta sbagliata».