Baghdad, Teheran, Washington: i peshmerga vogliono svincolarsi dalle decisioni altrui, approfittare del momento di caos per ridefinire i confini. Il Kurdistan iracheno vive una fase di transizione decisiva: con le proteste interne che premono sull’immortale presidente Barzani, il partito di governo Kdp sfrutta al meglio la paura per l’avanzata islamista per far tacere le voci critiche, soffocare le manifestazioni nelle zone calde, il Kurdistan orientale roccaforte del Puk e ora del movimento Goran.

Per farlo non esita ad usare i peshmerga come aggregatore politico. In prima linea nella propaganda interna ci sono i militari. Questa è l’occasione per allargare le frontiere. Al mondo chiedono armi e il riconoscimento di una lunga fedeltà, un radicato occidentalismo che – dicono – va premiato. Vogliono una coalizione che usi il pugno di ferro: «Gli Usa hanno rovesciato Saddam in pochi mesi. Non riesco a credere che ora siano incapaci di far collassare Daesh». Dalla bocca di Farhang Afandi esce un fiume di critiche. Eppure è il maggiore dei peshmerga responsabile di coordinare le operazioni con Canada e Stati uniti, lui che in Canada ha vissuto per anni ritagliandosi un posto al sole come affermato uomini d’affari.

«L’atteggiamento della coalizione è frustrante, tentano di legarci a Baghdad – spiega al manifesto – Mandano soldi là e a noi non arriva nulla. Non abbiamo denaro per pagare gli stipendi ai peshmerga. L’obiettivo dell’Occidente è chiaro: vogliono il controllo diretto dell’Iraq, toglierlo dalle grinfie dell’Iran. Noi ne paghiamo il prezzo».

Ma, aggiunge, l’Iraq non esiste più («Siamo realisti, la corruzione ha demolito le istituzioni statali»), per cui tanto vale appoggiarsi «all’unica forza pro-occidentale nella regione». L’occidentalismo kurdo iracheno non è una novità: i rapporti sono molto stretti, Tel Aviv è stato tra i primi a comprare il petrolio kurdo e la capitale, Erbil, è lo specchio dell’attrazione che il modello europeo esercita. Palazzi in costruzione, banche, negozi di moda, una città diversa da quelle mediorientali, dove anche il suq ha perso la sua anima antica per fare spazio ad un mercato fancy.

Ora i peshmerga vogliono indietro quanto pensano gli spetti: «I raid sono pochi. Non siamo solo noi ad essere frustrati: i consiglieri militari Usa sanno di poter fare di più ma gli viene impedito». Citiamo il noto aiuto dato dagli alleati Usa nel Golfo alla crescita di Daesh: «Le intelligence mondiali conoscevano Daesh, ma non ne immaginavano la potenzialità. Erano talmente accecati dalla lotta al presidente siriano Assad da non accorgersi di come al-Nusra, Isis, Jaish al-Fatah prosperassero».

Il maggiore torna al suo lavoro, c’è da mettere in sicurezza Sinjar. Prima, però, manda il suo personale messaggio, la visione peshmerga del Medio Oriente: «Assad è un nemico? Certo. L’Iran è terrorista? Sì. Che le milizie sciite siano anti-occidentali e anti-israeliane è assodato. Fateci prosperare, siamo noi la vostra difesa».