La gestione dei flussi migratori sta trasformando in maniera durevole la società italiana. Tra i molti orizzonti coinvolti, quello letterario è uno dei pochi che sta assorbendo la relativa novità senza il clamore della notizia.

Gli stili e gli approcci sono dei più diversi, ovviamente. Sembra però intravedersi un limite generale nella recente «letteratura migrante». Più che raccontare pensieri e bisogni concreti del migrante, molti di questi romanzi mettono in scena le necessità culturali dell’autore. Vengono proiettati sui protagonisti dei racconti i desideri di scrittori vittime di un «dover essere» che raramente si intravede nelle storie di questi «ultimi della terra».

L’ultimo romanzo di Paolo Di Stefano («I pesci devono nuotare», Rizzoli, 17 euro) racchiude i pregi e i difetti di questa tendenza.

Il romanzo racconta la storia di Selim, giovane egiziano stretto tra la dura vita familiare e sociale del suo paese e l’agognata realizzazione economica ed esistenziale che sogna di trovare in Italia. Ancora minorenne, deciderà di imbarcarsi, riuscendo nel suo tentativo e dando avvio alla sua nuova vita da immigrato. Una vita prevedibilmente molto dura, tra centri di identificazione, fughe in treno, sistemazioni di fortuna, alla ricerca di un lavoro impossibile. Un’odissea affrontata però con quella tenacia tipica di chi sa di non aver altro da perdere.

Attraverso la storia di Selim l’autore ci racconta il destino del migrante, dà voce alle migliaia di senza voce in fuga attraverso il Mediterraneo. Dare voce al (presunto) diverso, con le sue paure, le ansie, le frontiere culturali e materiali difficili da travalicare, è il primo passo verso il riconoscimento dell’altro.

Questa impostazione virtuosa è però al tempo stesso problematica. L’operazione di «parlare per loro» è foriera di possibili fraintendimenti. I milioni di Selim in viaggio disperato verso l’Europa sognano davvero quello che sogna il Selim di Di Stefano? O si corre il rischio di proiettare nei migranti quel che l’autore vorrebbe che pensassero, come vorrebbe che si comportassero se solo fossero accolti da una società meno chiusa e meno impaurita?

Selim appare convinto della superiorità della cultura occidentale su quella d’origine. La fuga dall’Egitto nasconde diversi motivi, ma rappresenta soprattutto una rottura con la famiglia, il contesto sociale e culturale, la religione opprimente.

Viceversa, è affascinato da tutto ciò che rappresenta l’Italia. Passano i mesi e gli anni per Selim senza trovare un lavoro decente. Appena questo arriva – diventerà receptionist di un grande albergo – per Selim sembra realizzarsi un sogno.

Poco importa che questo lavoro implichi orari massacranti, senza ferie, con contratti a tempo, e sia pagato la misera cifra di 850 euro al mese. Per Selim il sogno è già realtà, poco importa che questa realtà sia davvero distopica: qualsiasi cosa avvenga, sarà comunque meglio dell’Egitto. Meglio aggregarsi alla massa informe di nuovi schiavi che pregare cinque volte al giorno in direzione della Mecca.

L’intento pedagogico dell’autore non va però banalizzato, volto a costruire orizzonti di tolleranza per le giovani generazioni. Bisogna però intendersi su che tipo di «tolleranza» si vuole promuovere. Lungi dall’essere giovani sognatori alla ricerca d’emancipazione, i migranti che riescono ad arrivare in Europa si trasformano rapidamente in nuovi Rosso Malpelo del XXI secolo.

L’emancipazione, anche solo economica, è per la stragrande maggioranza di questi un miraggio irraggiungibile.

La realtà è molto più prosaica: sistemazioni abitative ai limiti della civiltà, lavori in nero, senza garanzie né sicurezza, con turni massacranti e paghe sotto la soglia della povertà, scansati o compatiti dalla società integrata. Una condizione umana degradante, che genera presto un rifiuto del modello di vita occidentale.

Non è il «sogno americano» del self made man la chiave per interpretare la questione migrante. Il rapporto tra migranti e società autoctone assume le forme del conflitto. Questo conflitto non bisogna mascherarlo: ci racconta la nostra società, dove non c’è possibile integrazione senza inclusione sociale del lavoratore migrante.

La tolleranza è d’altronde un concetto equivoco. Presuppone un soggetto «tollerato», posto dunque su di un piano di inferiorità morale.

Per scardinare questa inferiorità, l’unico strumento non è narrare la tenacia di giovani sognatori, ma denunciare condizioni di vita queste sì in tutto e per tutto assimilabili ai paesi di provenienza.