Avevamo lasciato i personaggi di Maxim Biller mentre nelle ultime pagine di Biografie, il suo avvincente romanzo pubblicato nel 2017, camminavano per le viuzze di Buczacz, lo shtetl galiziano nel quale erano nati i loro progenitori e, nell’ottobre del 1943, la comunità ebraica era stata sterminata dalle SS. Spinti dalla necessità di approfondire la conoscenza delle proprie radici, vi si erano recati e avevano scoperto ben presto quanto la visita di quei luoghi li avesse profondamente impressionati rendendoli assai più consapevoli della propria storia e cultura.
È uno dei temi sui quali Biller, che è nato a Praga nel 1960 da genitori ebrei russi e vive in Germania fin dall’inizio degli anni ‘70, riflette da sempre. Con questo ultimo romanzo dal titolo Sechs Koffer (Kiepenheuer & Witsch) egli continua a porre al centro della sua attenzione tanto il rapporto tra ebrei e tedeschi quanto la storia d’Europa del secondo dopoguerra: un argomento, quest’ultimo, che esamina prendendo le mosse dalle vicende della propria famiglia.

DAL MOMENTO CHE il romanzo narra appunto dei misteri e delle dicerie che si tramandano di generazione in generazione nell’ambito di un nucleo familiare e il cui oggetto, qualche volta, è costituito dalla vita e dalla morte. Si tratta di una di quelle chiacchiere che avvelenano i rapporti tra padri e figli e, dando origine a innumerevoli tensioni e risentimenti tra parenti più o meno stretti, fanno avvertire la propria malvagia energia anche dopo decenni. In un contesto del genere i personaggi – sballottati tra i grandi avvenimenti della storia e le piccole miserie della quotidianità – appaiono profondamente smarriti e sono dunque esposti a subire la devastante violenza degli eventi, simboleggiata forse dalle valigie del titolo e dal loro straziante contenuto.

Proprio a questo riguardo, occorre mettere subito in rilievo come la storia di una famiglia ebreo-russa costretta a cercare rifugio in Occidente – prima a Praga, in seguito ad Amburgo e a Zurigo – venga narrata da sei diversi punti di vista e ruoti attorno a una delazione della quale fu vittima il nonno dell’autore, poi giustiziato nell’Unione Sovietica del 1960: una denuncia anonima che era probabilmente stata fatta da uno dei suoi figli. In un testo che si contraddistingue per la dimensione corale e brilla per la prosa scorrevole, il ritmo rapido, i dialoghi brevi e incisivi e la ricchezza del lessico, si parla del Kgb nonché dei servizi segreti cecoslovacchi e tedesco-orientali e dei loro documenti, del cinema cecoslovacco del secondo dopoguerra, di amori crudelmente infelici, delle macchinazioni architettate da qualche burocrate di Mosca palesemente antisemita. Ed è nel contempo una storia sull’oggi, sulle lacerazioni che dilaniano il nostro mondo e inducono il lettore a interrogarsi su una questione di capitale importanza: si è disposti a tradire, pur di salvare la propria vita? E si è pronti a farlo anche se c’è la certezza che a pagare sarà il proprio padre? A proposito della struttura del romanzo, è interessante notare come Biller riveli i tanti elementi della vicenda raccontata solo a poco a poco; colloca e svela progressivamente le tessere della sua composizione fino a completare il quadro della narrazione solo nelle ultime pagine del romanzo riuscendo in questo modo a renderlo appassionante.

DEGNI DI NOTA sembrano poi alcuni personaggi, capaci di imporsi all’attenzione del lettore grazie soprattutto alla complessità del loro carattere e alla vivacità delle loro parole. È questo il caso della volitiva e fascinosa Natalia Gelernter: un’attrice di talento che, sopravvissuta alla Shoah e zia dell’io narrante dopo essere stata a lungo l’amante del padre di quest’ultimo, decide di suicidarsi qualche anno più tardi buttandosi sotto un camion. In Sechs Koffer, come accade sovente nelle opere narrative di Biller, appare inoltre centrale il ruolo svolto dalla cultura ebraica e da quell’autoironia che caratterizza la migliore letteratura yiddish – una lingua, questa, che i vari personaggi del romanzo utilizzano peraltro abbastanza spesso.

OCCORRE PURE osservare come il narratore non manchi di rappresentare alcuni stereotipi relativi agli ebrei e non rinunci nemmeno ad attribuire loro qualche ordinaria, avvilente meschinità.
Delinea i tratti principali di un microcosmo – la sua famiglia, abbiamo detto – che appare intenzionato a descrivere con sincerità, anche a costo di essere dolorosamente spietato. In conclusione, con Sechs Koffer Maxim Biller ci offre un pregevole testo narrativo che ne conferma le grandi qualità. Ci si augura che, grazie alle traduzioni, le sue opere trovino anche in Italia l’attenzione che meritano.