Il 21 luglio l’Europa ha completato la sua risposta al problema economico: 750 miliardi di euro destinati ad alimentare la crescita con la spesa pubblica dei paesi membri. Si aggiungono ai 540 miliardi (Sure, Bei, Mes) stanziati in aprile per contrastare la recessione da pandemia. Con un impegno totale di 1300 miliardi l’Europa, indebitandosi sui mercati finanziari, mette in campo poco meno del 10% del suo prodotto lordo (Londra esclusa).

Mentre i 540 miliardi sono già utilizzabili, i 750 lo saranno dalla metà del 2021 nel volgere di un triennio. Quindi il loro contributo alla fuoruscita dalla recessione nei prossimi mesi può essere solo indiretto se miglioreranno le aspettative di famiglie, imprese, mercati finanziari, attualmente depresse. Ma, ben impiegati negli anni, quei danari recheranno un apporto importante allo sviluppo economico dell’Europa, una volta superata la recessione e alla condizione che la pandemia venga sconfitta da cure e vaccini.

Attraverso quattro giorni di trattativa molto tesa a Bruxelles il Presidente del Consiglio Conte ha meritoriamente ottenuto che poco meno di un terzo dei 750 miliardi si riversi sull’economia italiana, il cui peso si aggira solo sul 13% del Pil della Ue.

I 209 miliardi riconosciuti all’Italia si aggiungono ai 96 già accordati in aprile a valere sui 540 (Sure, 20 miliardi; Bei, 40 miliardi; MES, 36 miliardi) portando il totale a oltre 300 miliardi, corrispondenti al 17% del Pil italiano quale era stato nel 2019. Questi sono i numeri, nella loro ragguardevole entità. E ora?

La priorità resta la recessione. Dopo la chiusura antivirus la riapertura delle attività produttive ha consentito in Italia un rimbalzo d’offerta non trascurabile, a “V”. La produzione industriale, caduta di un quarto a seguito del blocco, a giugno potrebbe recuperare i livelli di gennaio. Il recupero, tuttavia, è minore nell’intero settore terziario (75% dell’intera economia, rispetto al 20% dell’industria, costruzioni escluse) e latita nei rami del turismo, commercio al minuto, ristorazione, servizi alla persona. Nell’insieme, anche la previsione più rosea – quella del Centro Europa Ricerche – sconta una caduta del Pil nell’intero 2020 non inferiore al 7%: un vuoto di domanda di 130 miliardi, che nelle previsioni meno incoraggianti salgono a 200.

É quindi notevole la maggiore spesa pubblica necessaria a colmare il vuoto e uscire dalla recessione. Lo è anche perché nell’immediato l’impulso addizionale proveniente dal bilancio pubblico per la più gran parte resta costituito da uscite correnti (ammortizzatori sociali, sussidi trasferimenti, attivazione di garanzie) e minor gettito fiscale. Il loro effetto moltiplicativo sul reddito, strutturalmente basso, viene ulteriormente ridotto dalla propensione a risparmiare precauzionalmente manifestata da famiglie preoccupate: una spesa di 100 accresce solo di 50 la domanda effettiva.

É urgente che Governo e Parlamento procedano a un’ulteriore, cospicua dilatazione della spesa. Davvero, non si capisce perché tardino. I fondi continueranno a provenire dai titoli di stato, ben più onerosi dei crediti che l’Europa ha aperto in aprile all’Italia e che l’Italia colpevolmente non richiede (con buona pace dell’Ufficio Parlamentare deputato ai calcoli di Bilancio e della Corte deputata al riscontro dei Conti!).

Con due decreti (Cura Italia e Rilancio) il Governo ha messo in campo 75 miliardi e pare intenda chiedere presto al Parlamento di autorizzarne altri 25. Cento miliardi sono manifestamente inadeguati, data la modestia dei moltiplicatori e i tempi ristretti per sostenere nell’anno l’attività economica. Occorre far di più, il più rapidamente possibile. Decisivi sono gli investimenti pubblici.

É particolarmente grave che il governo, oltre a sostenere la domanda poco e con ritardo, non abbia ancora stilato un programma di spese in conto capitale scandite secondo priorità sulla base di trasparenti analisi costi-benefici. Avrebbero potuto, potrebbero, essere almeno avviati gli investimenti nella sanità, ricorrendo al Mes per il finanziamento a tassi agevolati che è lì da mesi ad attendere.

Oltre che a superare la recessione gli investimenti pubblici sono indispensabili per la crescita dell’economia. E’ quindi non meno grave che il Governo, sin dal suo costituirsi, abbia mancato di configurare un’azione a vasto raggio per il ritorno alla crescita di un’economia che viene da un ventennio di ristagno dell’accumulazione di capitale e della produttività, i due motori dello sviluppo. Questa azione era urgente prima dell’epidemia. La recessione la rende ancora più urgente.

Gli investimenti pubblici devono esserne il fulcro. Nell’arco della legislatura, che terminerà nel marzo del 2023, la scala degli investimenti della Pa dall’attuale 2% del Pil (a malapena sufficiente a manutenere le strutture esistenti, coi ponti che crollano) andrebbe almeno raddoppiata, se non triplicata. A questo fine è da devolvere il grosso delle risorse accordate all’Italia.

L’Europa, come è giusto, verificherà. Agli investimenti nella sanità ne vanno aggiunti altri: messa in sicurezza di un territorio a brandelli; difesa dell’ambiente ed economia “verde”; infrastrutture produttive, fisiche e immateriali; istruzione e ricerca; efficienza della pubblica amministrazione e qualità dei suoi servizi. Fondamentale è orientare gli investimenti al Mezzogiorno, ponendoli alla base di un nuovo, concreto meridionalismo. Va sottolineato che al di là della spesa d’avvio coperta con debito, nel medio periodo gli investimenti si autofinanziano grazie al maggior reddito e al gettito fiscale che generano. Sono quindi in grado di rimborsare i creditori.

In sintesi, oltre agli investimenti pubblici e a una rinnovata politica per il Sud, l’azione per la crescita deve perequare la distribuzione del reddito fra i cittadini, modernizzare l’ordinamento giuridico dell’economia, sollecitare la produttività delle imprese attraverso la concorrenza, non coi danari a fondo perduto.
Va riassorbito il debito pubblico. La risalita del deficit dai ridotti valori del 2019 è in larga misura ciclica, temporanea. Oltre il ciclo, nel medio termine, il riequilibrio di bilancio è realizzabile lungo le due vie sinora pretermesse: taglio delle uscite correnti riducibili (non stipendi e pensioni!), cauterizzare la piaga dell’evasione. Il calo dello spread contribuirebbe a contenere la spesa. La crescita farebbe il resto, abbattendo il rapporto fra il debito e il reddito nazionale.