Draghi ascolta ma non si può dire che ricambi con troppa eloquenza. Il solo impegno che avrebbe preso sinora, nella girandola di incontri con i partiti della maggioranza, sarebbe quello, assunto lunedì con i 5 Stelle, di non toccare ulteriormente il Reddito di cittadinanza. Per il resto non si sbilancia. Tutti ieri gli hanno chiesto la stessa cosa: intervento drastico contro i rincari energetici. Qualche soldo, oltre ai 2 miliardi già stanziati, ci sarebbe. Conta e riconta viene fuori che dei 7 miliardi per il taglio dell’Irpef nel primo anno ne verranno adoperati poco più di 6 e tutti a chiedere di convogliare sulle bollette gli 8-900 milioni esorbitanti. Ma il premier non promette. Ci sta pensando e giura che ci penserà ancora. Perché quei milioncini, aggiunti ai 600 già pronti per soddisfare alcune tra le richieste dei partiti, possono fare la differenza. Disporre di appena 600 milioni vuol dire dover mitragliare rispose negative a raffica. Un miliardo e mezzo è sempre poco ma qualcosina in più si può fare. Poi ci sono le previsioni degli esperti, secondo i quali il galoppo dell’energia si fermerà a marzo e se dovessero essere smentite, ragiona il premier, si può sempre intervenire con un decreto ad hoc.

Dunque per ora non c’è nessuna garanzia di risposta positiva. Però, nonostante le perplessità, è difficile che Draghi si opponga fino all’ultimo a una richiesta corale condivisa praticamente dall’intera popolazione, sia dagli utenti flagellati dal rincaro che dalle aziende. «Il caro bollette è il problema numero uno per famiglie e aziende», si infiamma Letta e Salvini usa quasi le stesse parole: «La vera emergenza è il caro bollette». Il leghista però non si limita come tutti gli altri a reclamare in pronto intervento. Insiste anche sul da dove vadano presi i soldi necessari: «Invece di mettere 9 miliardi sul Reddito, che spesso poi vanno ai furbetti, usiamoli per tagliare le bollette». Propaganda allo stato puro. Salvini per primo sa che Draghi non può e non vuole accontentarlo. Tanto più che nella crociata, all’interno della maggioranza, non è spalleggiato più neppure da Fi, dopo la conversione di san Silvio sulla via del Colle.

Non che le cose tra la Fi iperdraghiana e il governo di Draghi le cose vadano benissimo in questo momento. Gli azzurri, consultati ieri come Lega e Pd mentre tutti altri partiti e partitini arriveranno a palazzo Chigi oggi, sono anzi quelli usciti più dubbiosi dalla chiacchierata. Dei circa 6200 emendamenti presentati, la solita enormità, 1100 sono firmati dalla sola Fi e per ritirarli, spiega la capogruppo Bernini, «stiamo aspettando risposte: se i contenuti vengono accolti li ritiriamo. Le sensazioni sono positive ma vedremo i risultati». Fi ha proposto di portare lo stanziamento per il taglio delle tasse «almeno a 10 miliardi» ma anche «una ulteriore proroga selettiva delle cartelle esattoriali». Probabilmente arriverà e andrà oltre quella votata ieri al Senato, su emendamento del governo, in extremis, che porta la scadenza sino al 9 dicembre, di fatto il 14 con i 5 giorni di «tolleranza».

La manovra non avrà un iter facile al Senato. I guai del dl fiscale, bloccato da lunedì dall’ostruzionismo di FdI esteso ieri anche alla manovra, lo lasciano chiaramente intendere e non c’è solo FdI ma anche le aree ex grilline del gruppo Misto decise a dare battaglia.

Ma i guai seri per il governo arrivano dall’esterno del palazzo. Dallo scontro con i sindacati, che dopo la rottura sulla riforma del fisco di lunedì sera tornano a considerare lo sciopero generale. Per il Pd sarebbe un problema immenso e il ministro del Lavoro Orlando prova a spegnere subito l’incendio: «Abbiamo chiesto di proseguire il confronto con i sindacati e mi pare ci sia una volontà chiara da parte di Draghi di proseguirlo. Una parte dei problemi possono essere superati semplicemente illustrando aspetti della manovra non ancora definiti». Anche con tutta la fiducia dargli credito è difficile. Sinora, da settimane, di quella soluzione semplice semplice non se n’è vista l’ombra.

Né c’è solo il fisco. Per i professori la legge di bilancio praticamente non prevede aumenti e la mobilitazione della scuola è quasi inevitabile. Il problema di Draghi è nel sociale, non nel palazzo dormiente.