«La terra è nostra ma lo Stato è solo per loro e anche la Knesset non è per me…ma se riusciamo a cancellare Lieberman e a far imprigionare Bibi allora saremo pronti…». In un video, Tamer must vote, che ha avuto decine di migliaia di visualizzazioni su YouTube, Tamer Nafar, il più noto dei rapper palestinesi nonché cittadino israeliano residente a Lod, sale sul ring e combatte contro se stesso.

Vorrebbe boicottare il voto. Sa che i giochi li decideranno altri e non gli arabi. Allo stesso tempo sa quanto sia importante che i palestinesi d’Israele vadano alle urne oggi e facciano sentire la loro voce e quella dei palestinesi sotto occupazione. A maggior ragione dopo l’approvazione lo scorso anno da parte della Knesset di una legge che proclama Israele Stato della nazione ebraica e che di fatto ha sancito lo status di cittadini di serie B per i non ebrei, gli arabo-israeliani.

Il dilemma di Tamer Nafar è il dilemma di tutti i palestinesi di Israele (musulmani, cristiani), inclusi i drusi, circa il 20% della popolazione. Ed è visibile nei sondaggi. La percentuale dei palestinesi intenzionati ad andare alle urne è drasticamente calata rispetto alle elezioni del 2015. Secondo i dati raccolti dall’Istituto Yaffa e dall’Iniziativa Abramo voterà appena il 51% rispetto al 63% di quattro anni fa.

Fadel Younis vive nella zona di Wadi Ara. Il 9 aprile resterà a casa. «Il mio voto e quello degli altri arabi non serve a nulla – ci dice sconfortato – Pago le tasse, rispetto la legge, ma alla fine resto un arabo. Lo Stato mi tollera e non mi accetta completamente. I partiti arabi non hanno alcun peso, Gantz nemmeno li prende in considerazione».

Younis si è riferito alle recenti dichiarazioni dell’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, leader della lista Blu e Bianco, rivale principale del Likud del premier di destra Netanyahu, che ha escluso la possibilità di ricorrere ai deputati arabi per formare una maggioranza di governo alternativa a quella nazionalista e religiosa.

Tra coloro che invece andranno ai seggi, non pochi sceglieranno un partito sionista. «Una percentuale del voto (palestinese) è sempre stata appannaggio dei partiti sionisti, questa volta sarà più alta – prevede l’analista Wadie Abu Nassar – È più forte l’idea che i partiti arabi non siano influenti nella politica israeliana e che sostenere le forze sioniste progressiste, come il Meretz, sia più vantaggioso».

I partiti arabi, aggiunge Abu Nassar, «sono accusati di non aver trovato un modo e le alleanze giuste per bloccare l’approvazione della legge che fa di Israele lo Stato dei cittadini ebrei». Pesa inoltre la spaccatura interna di inizio anno. Nel 2015 i leader palestinesi si erano raccolti in una lista unica (Lista araba unita) che aveva ottenuto 13 dei 120 seggi della Knesset. Quest’anno 10-12 al massimo.

In corsa ci sono due liste arabe: Hadash-Tal, che secondo i sondaggi potrebbe ricevere il 34% dei voti arabi, e Ram-Balad, il 33%. Il politologo Michael Warshawsky spiega la frattura come un grave errore di calcolo di Hadash, i comunisti: «Ayman Odeh (il leader di Hadash, ndr) ha commesso una sciocchezza politica scegliendo di rompere il fronte comune e di allearsi con Ahmed Tibi (Tal) un personaggio ambiguo. Se Odeh pensava di poter attirare l’attenzione di Gantz, allora ha fallito totalmente». Per l’avvocato Sawsan Zaher, della ong Adalah, per l’assistenza legale alla minoranza araba, sono fondamentali le iniziative che i partiti arabi porteranno avanti dopo il voto.

«Saranno chiamati a lottare con più forza in un mondo politico e in una società dove la destra nazionalista continuerà a dominare. E dovranno far sentire la voce dei palestinesi sotto occupazione militare di cui non parla più nessuno in Israele – ci dice Zaher – Sarà essenziale inoltre l’atteggiamento di tutti i palestinesi in Israele che sino a oggi hanno reagito in modo limitato alla legge Stato-nazione ebraica perché non ne sentono ancora le conseguenze. Quando ne vedranno gli effetti concreti sulla loro vita quotidiana allora non potranno che realizzare l’impossibilità dell’integrazione in un sistema, come quello attuale, che li tollera nel migliore dei casi».