Non manca il riscaldamento, spesso eccessivo, ma in teatro, anzi nei teatri italiani, tira una gran brutt’aria. Non è per fare i difficili o per rimpiangere un «passato migliore», che ovviamente ogni tempo ha la sua cultura. Ma resta difficile accettare senza fastidio che quella di oggi sia una situazione fatta solo di pretese assurde, nomine misteriose o ingiustificate, privilegi salottieri, favori familiari che malamente citano la grandezza di Macbeth e la sua Lady.

TUTTO QUESTO non per moralismo, ché uno spettatore consapevole accetta tranquillamente che il pericolo sia il suo mestiere, ma per l’intreccio di interessi e pretese privati e privatissimi, che convoglia fiumi di danaro, sottraendoli a investimenti culturali (nel senso più stretto della parola) per allungarsi e deviare nei rivoli della mondanità, dell’aggiornamento ad alto prezzo e poco senso, in un momento (che dura da anni) di ristrettezze, economie e sacrifici.

Davanti a quelli che sono i problemi reali delle persone, può suonare anche ridicolo, oltre che tragico, sentire la richiesta di 12 milioni di euro da parte di Luca Barbareschi per portare a compimento l’acquisto dell’edificio del teatro Eliseo. Eppure esiste, e la «cultura» deve proprio avere un alto prezzo, se non sono bastati gli otto milioni di due anni fa. Un vortice di banconote da «Paperone a Montecitorio», che getta nello sconforto (e magari anche verso destra) attori e tecnici dello spettacolo ridotti alla disoccupazione e spesso (con rispetto parlando) letteralmente alla fame. Con la ciliegina delle firme congiunte sull’emendamento al famigerato milleproproghe, di un parlamentare forzista e di uno Pd, secondo quanto riportano i giornali.

Il Pd del resto ha sempre giocato sulla disponibilità a mille e più proroghe, usando quel canale anche per festival o manifestazioni più vicine a sé. Un festival che si è aggiudicato un contributo fisso milionario, è stato ad esempio Romaeuropa. La manifestazione romana, cuore del glamour romanesco dello spettacolo, è tornato alle cronache proprio in questi giorni, perché la sua presidente e fondatrice, Monique Veaute, è stata designata (dalla giunta di destra della città) e confermata dal ministro Franceschini, prossima direttrice del Festival di Spoleto, che insieme a quello di Napoli è l’unico ad avere una rilevante garanzia economica governativa. Tanto più affidabile ora che, il giorno dopo il suo ritorno al Collegio Romano alla guida dei Beni Culturali, il ministro ha richiamato accanto a sé Salvo Nastasi, da sempre sostenitore anche lui di un interventismo culturale che non concede repliche.

LE CONSEGUENZE si vedono già, e non sono rassicuranti per lo spettatore ignaro che paga le tasse. Tra diversi esempi (ma non ne mancano altri) due direzioni di teatri pubblici affidate a personalità curiose. Stefano Accorsi (nominato ieri responsabile artistico del teatro nazionale della Toscana) e Davide Livermore (direttore unico dello stabile di Genova, anch’esso «nazionale») quanto sanno di come funziona un ente del genere, quale appeal possono esercitare su artisti o teatri concorrenti, se non ne conoscono i meccanismi precipui e particolari? Il primo è noto soprattutto come attore (ma più di cinema e tv), il secondo è regista d’opera con due inaugurazioni scaligere, e qualche telespettatore forse ricorda quella sua Tosca che alla faccia di Puccini saettava tra le rovine di sant’Andrea della Valle come in un terrifico videogame. «È il teatro, bellezza», ma non c’è più nessun Bogart in giro.