L’esito del referendum sulla Brexit ha prodotto reazioni contraddittorie nei Paesi di Visegrad. Arrivano parole di esultanza e vittoria dalle fazioni euroscettiche, che non fanno parte di maggioranze di governo. Il voto di giovedì è visto come uno schiaffo alle «euroburocrazie» e le élites di Bruxelles. Inoltre si ha la sensazione di uno forte smacco della cancelliera Angela Merkel e dei vertici europei sempre più invisi a causa della loro politica di quote di ridistribuzione dei migranti. «L’Inghilterra ha salvato l’Europa per ben tre volte di seguito nella storia, per la prima volta sconfiggendo Napoleone, per la seconda sconfiggendo il Terzo Reich e adesso può aiutarci a sconfiggere questo mostro di Bruxelles», ha detto l’ex presidente ceco Vaclav Klaus, che quattro anni fa bloccò per diversi mesi la ratifica finale del Trattato di Lisbona. Per ora pare che gli euroscettici dell’est però non si vogliano impegnare davvero sull’uscita dei rispettivi Paesi dall’Ue.

Situazione più complicata per i governi locali. «Bisogna fare di tutto per evitare un effetto domino», ha avvertito il presidente polacco Andrzej Duda, secondo cui l’esito del referendum è i larga parte colpa dell’Unione Europea stessa che continua propugnare l’idea di un’integrazione sempre più stretta.

In realtà Brexit lascia in una situazione di oggettiva difficoltà i governi dei Paesi di Visegrad. Quest’ultimi hanno avuto sempre nella Gran Bretagna un forte alleato silente delle proprie rivendicazioni. Fa testo in questo caso proprio il dibattito sui rifugiati, dove l’atteggiamento di chiusura della Gran Bretagna aiutava le reticenze dei Paesi di Visegrad, sebbene gli obbiettivi non fossero proprio coincidenti. Anzi il Regno Unito mirava a una chiusura complessiva delle frontiere, dunque anche ai migranti provenienti dai Paesi di recente adesione all’Ue. Perciò i governi dell’area stanno puntando molto sulla lettura che Brexit sia stato causato dall’ideologia europeista dell’integrazione sempre più avanzata. «L’Unione deve cambiare. L’Europa deve diventare più pronta all’azione, più flessibile, meno legata dalla burocrazia e più comprensiva delle differenze, che possono esprimere il 27 Paesi membri», ha sottolineato nel suo commento su Brexit il primo ministro ceco Bohuslav Sobotka. Tutto si giocherà quindi nelle negoziazioni sull’uscita della Gran Bretagna. Se alla fine lo shock dovesse in qualche modo riassorbirsi, i Paesi di Visegrad si troverebbero in un’Unione ancora più egemonizzata dalla Germania.

Un problema ben più sostanzioso è la questione delle comunità migranti nello stesso Regno Unito, dove ci sono almeno 850 mila polacchi e altre decine di migliaia di cechi, slovacchi e ungheresi. Nella campagna elettorale il tema dell’immigrazione ha avuto una forte eco proprio in collegamento ai forti flussi di polacchi, romeni e bulgari, che hanno accesso libero al mercato di lavoro britannico. «Penso che le persone dall’India o dall’Austria siano più propense a parlare inglese, a capire la common law e creare un legame con questo Paese che della gente, che arriva da Paesi, che non si sono ancora ripresi da esser stati dall’altra parte della Cortina di Ferro», ebbe a dichiarare durante la campagna Nigel Farrage. Il primo ministro Cameron si è affrettato a dire che non ci saranno ripercussioni immediate sui residenti degli altri Paesi dell’UE. Dall’altra parte il primo ministro che sarà incaricato in ottobre a gestire il Brexit potrà difficilmente ignorare un tema tanto preponderante nella campagna elettorale. I Paesi di Visegrad rischiano ora di passare del ruolo di guardiani delle frontiere a quello dei respinti.