Le nuove destre radicali sono oggi ben rappresentate in tutti i paesi dell’Unione Europe e occupano posizioni di governo in otto di essi. Le eccezioni spagnola e tedesca sono cadute. Dopo l’elezione di Trump e Bolsonaro, il fenomeno ha assunto dimensioni globali. Il mondo non aveva conosciuto nulla di simile dopo gli anni trenta e ciò risveglia la memoria del fascismo. Una domanda sorge quindi spontanea: cosa ci insegna il passato per capire quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi? Non tutto, ma forse qualcosa. Il comparativismo serve a cogliere analogie e differenze più che omologie e ripetizioni; talvolta rivela affinità e continuità ma spesso indica che i vecchi concetti sono obsoleti e devono essere sostituiti o almeno rinnovati.

OCCORRE INNANZI TUTTO osservare che, tranne poche eccezioni, le nuove destre non si autodefiniscono fasciste, anche se in molti casi quella è la loro matrice. Forse sarebbe meglio chiamarle postfasciste per distinguerle dai loro antenati: da un lato, esse appartengono a un diverso contesto storico, ma dall’altro è difficile interpretarne la natura e gli scopi senza metterle in rapporto con il fascismo, che rimane un’esperienza fondatrice della nostra modernità politica. In altri termini, il concetto di fascismo è al contempo inappropriato e indispensabile per decifrare questa nuova realtà. Le nuove destre non sono più fasciste ma non sono neppure qualcosa di completamente nuovo e altro dal fascismo. Hanno un carattere transitorio e instabile, ancora in mezzo al guado, suscettibile di mutare in direzioni diverse.

L’ANALOGIA con gli anni tra le due guerre è abbastanza evidente: l’ascesa delle nuove destre si inscrive in una cornice di disordine mondiale e di crisi economica – la crisi fiscale dello stato – che alimenta reazioni xenofobe e nazionaliste. In seno all’Unione Europea, la crisi è anche politica e morale, come hanno messo in luce il Brexit e la vicenda dei profughi, di cui l’Italia è l’epicentro. I vertici europei su questo tema ricordano la conferenza di Evian del 1938, quando le grandi potenze abbandonarono gli ebrei al loro destino.

Le differenze sono tuttavia altrettanto se non più vistose. Alcune sono ovvie, come l’uso limitato della violenza e il ruolo marginale dell’anticomunismo nella retorica delle nuove destre. Non stupisce che, dopo sette decenni di pace nel mondo occidentale, la violenza non sia più il tratto dominante del nazionalismo.

ALL’INDOMANI della Grande Guerra, la politica si faceva con le armi e si prefiggeva lo scopo di annientare il nemico. Oggi non ci sono più milizie ma Salvini che predica la legittimità della violenza individuale: «la difesa è sempre legittima». A trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, l’anticomunismo ha perduto gran parte del suo significato, ma questo declino – parallelo all’eclissi del comunismo – è diventato in molti casi un vantaggio per le nuove destre che possono rivolgersi alle classi laboriose senza dissolverle in un indistinto «popolo», stirpe o nazione, e senza dover superare una barriera di culture, valori e linguaggi.

DUE SONO FORSE le differenze meno ovvie e più significative. La prima riguarda il carattere radicalmente anti-utopico del postfascismo, il quale appartiene a un’era post-ideologica – alcuni direbbero «presentista» – che ha perduto ogni orizzonte di attesa. Negli anni trenta, il fascismo si presentava come una «rivoluzione nazionale», voleva edificare una nuova civiltà e plasmare un «uomo nuovo» contro la debolezza e la decadenza delle democrazie. Il postfascismo non coltiva più ambizioni utopiche. La sua modernità risiede nella dimestichezza dei suoi leader con i mezzi di comunicazione di massa, mentre il suo progetto non è né moderno né rivoluzionario. I suoi nemici sono la globalizzazione, l’immigrazione, l’islam e il terrorismo contro i quali prescrive un ritorno al passato: sovranità nazionale, ripristino delle frontiere, protezionismo, difesa dell’«identità nazionale», preservazione delle radici cristiane dell’Europa, leggi liberticide, decisionismo autoritario, ecc. La sua logica ricorda i lamenti del «pessimismo culturale» di fine Ottocento più che il furore della «rivoluzione conservatrice» degli anni tra le due guerre.

La seconda differenza rilevante risiede nel passaggio dall’antisemitismo all’islamofobia. Come i suoi antenati fascisti, la nuova destra è razzista e fonda la sua politica nella ricerca di un capro espiatorio ma il suo bersaglio è cambiato: i responsabili dei mali che affliggono le nostre società, dalla disoccupazione al declino dei valori tradizionali, dallo sradicamento culturale alla minaccia terrorista, non è più l’ebreo ma l’immigrato. Il nemico non ha più l’aspetto dell’ebreo cosmopolita, incarnazione ubiqua della finanza e del bolscevismo internazionali; è il musulmano, il migrante, bacillo islamico dentro l’Europa «ebraico-cristiana», e il jihadista pronto a esplodere come una bomba umana.

TALVOLTA ANTISEMITISMO e islamofobia coesistono come due figure retoriche complementari. Viktor Orbán denuncia due minacce simbioticamente intrecciate: da un lato una cospirazione ordita dalla finanza ebraica di Wall Street – il banchiere di origine ungherese George Soros – e dall’altro un’invasione demografica, ossia l’immigrazione identificata sul piano culturale con l’«islamizzazione» dell’Europa. Questa retorica razzista non impedisce a Orbán di mantenere ottime relazioni con Israele, che appare ai suoi occhi un efficace bastione contro l’islam. In Francia, i principali sostenitori del mito dell’invasione islamica (le grand remplacement) sono intellettuali ebrei come Alain Finkielkraut o Eric Zemmour.

L’islamofobia non è un surrogato o una riformulazione dell’antisemitismo perché ha una sua storia che, a partire dal secolo XIX, è indissociabile da quella del colonialismo. È il colonialismo ad aver inventato un’antropologia politica fondata sulla dicotomia tra cittadini e «indigeni» che fissava rigorose frontiere geografiche, razziali, giuridiche e politiche. Sono queste le frontiere che le nuove destre vogliono ristabilire, sostituendo il mito della «missione civilizzatrice» con quello dell’«invasione islamica». Oggi preferiscono promulgare leggi contro il velo delle donne musulmane o escludere i bambini immigrati dalle mense scolastiche.

UN’ULTIMA DIFFERENZA chiama in causa le cosiddette «élites» europee. Negli anni trenta, la paura del bolscevismo le aveva spinte ad accogliere Mussolini, Hitler e Franco. Innumerevoli sono stati gli «errori di calcolo» da parte di statisti, banchieri e capitani d’industria, ma la loro scelta era chiara. Oggi gli interessi delle élites economiche e finanziarie non sono rappresentati dalle nuove destre ma dalla Troika e dagli organismi dirigenti dell’Unione Europea: la Commissione e la Bce. Il postfascismo potrebbe diventare il loro interlocutore privilegiato in caso di una crisi dell’euro e di una disgregazione dell’Unione Europea che precipiterebbero il continente in una situazione caotica e turbolenta.

PURTROPPO questa eventualità non è affatto inverosimile e la rapidità con la quale Wall Street si è adeguata a Trump mostra che una conversione del genere non sarebbe per nulla difficile. Le élites economiche e finanziarie che fissano gli orientamenti delle istituzioni europee e la classe politica che li mette in atto sono tutt’altro che un argine contro le nuove destre, ne sono anzi il motore. L’ascesa del postfascismo è in larga misura il prodotto di dieci anni di austerità condotta indifferentemente da governi di destra e sinistra in nome del principio secondo cui la responsabilità della crisi non appartiene alla finanza ma agli stati che, con le loro politiche sociali, vivono al di sopra dei loro mezzi e accumulano un enorme debito pubblico. Criticare queste politiche significa rimanere ancorati alle ideologie arcaiche del Novecento.

La campagna ossessiva dei media contro i populismi di destra e di sinistra tende a nascondere questa realtà: le élites pretendono di agire come i pompieri chiamati a spegnere l’incendio ma in realtà sono loro ad averlo appiccato. Esse non sono la risposta ai nuovi fascismi per la semplice ragione che ne sono la causa. Ricordano terribilmente i loro antenati, i «sonnambuli» che nel 1914 avevano precipitato un continente nel baratro senza rendersene conto.