È ormai sotto gli occhi di tutti che frutta e verdura, nel consumo e nella trasformazione industriale, sono in gran parte di «provenienza delittuosa»: giungono nei mercati e nelle fabbriche grazie all’opera di lavoratori che svolgono la loro attività in condizioni di sfruttamento, penalmente rilevante, a norma dell’art. 600 del codice penale.

E’ noto che questo articolo tratta un delitto a fattispecie plurima: nel campo lavorativo, chi lo compie, alternativamente, esercita su una persona i poteri del proprietario, che, implicando la «reificazione» della vittima, ne comporta «ex se» lo sfruttamento (riduzione e mantenimento in schiavitù), ovvero approfitta dello stato di necessità del lavoratore e lo pone in uno stato di soggezione continuativa, che ne comporta lo sfruttamento (riduzione o mantenimento in servitù). In entrambi i casi il colpevole è punito con la reclusione da otto a venti anni.

Dal codice (art. 603 bis) sono chiaramente scanditi i fatti che dimostrano l’esistenza di un rapporto di lavoro in cui la parte forte (l’imprenditore) sfrutta la parte debole: sistematica retribuzione in misura illegalmente ridotta; violazione della normativa su orario, riposo settimanale, sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; sottoposizione a condizioni lavorative, a metodi di sorveglianza, a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.
Questi dati sono nella norma che vieta l’intermediazione tra lavoratore sfruttato e imprenditore.

L’intermediario (il caporale, la cui molteplice figura criminale è ben descritta da Fiorella Farinelli sul quindicinale “Rocca“) è punito con pena meno pesante (da 5 a 8 anni di reclusione), rispetto a quella prevista per l’utente finale del lavoro servile. L’attenzione delle istituzioni e degli organi di informazione dovrebbe essere quindi maggiormente mirata sul reato più grave (riduzione in servitù) e sul sommo vertice dello sfruttamento di uomini e donne in stato di necessità, cioè sul proprietario terriero e comunque sull’imprenditore interessato alla raccolta e alla trasformazione di uva, pomodoro, olive.

L’attenzione e la severità della magistratura dovrebbero essere incrementate dagli eventi mortali della passata estate: il decesso del bracciante sottoposto allo sfruttamento rende necessario accertare se l’evento mortale, sicuramente non voluto, sia stato concretamente prevedibile, alla luce delle disumane ed incivili condizioni di lavoro, stabilmente imposte durante la raccolta di frutta e verdura. L’indagine di polizia e magistratura è in grado di verificare se l’utilizzatore del lavoro servile possa essere chiamato, a norma dell’art. 586 c.p., a rispondere, a titolo di dolo, della riduzione in servitù (art. 600) e, a titolo di colpa (con pena più severa), della morte non voluta ma prevedibile del lavoratore (temperatura africana, ritmi massacranti, insopportabile numero di ore).

Siano benvenute le campagne conoscitive delle istituzioni locali e la prospettata indagine parlamentare sul fenomeno del caporalato e sul reato sussidiario previsto dall’art. 603 bis, purché non rientrino, involontariamente, nel disegno del tacito allentamento repressivo, per riconoscimento dello stato di necessità, verso il principale mandante-utente-beneficiario dei mercanti di braccia, responsabile del più grave reato di riduzione in servitù.

Nell’attuale rilancio della libertà di impresa, il padrone potrebbe apparire meritevole di attenuazione del rigore investigativo e punitivo, in quanto oppresso dalle naturali scadenze stagionali e dalla difficoltà di abbandonare un metodo di lavoro in cui costi, ritmo e modalità devono fare i conti con la deperibilità dei prodotti da raccogliere e da trasformare, nonchè con la concorrenza straniera.
In chiave di realistica politica criminale può essere interpretata l’abrogazione, con decreto del 15.6.2015, del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera, commessa «con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore» (su questo cadeau del legislatore, v. Asnaghi-Rausei su bollettino Adpat). La sanzione prevista per il reo era di 20 euro per ciascun lavoratore abusivamente impiegato e per ogni giorno di utilizzazione fraudolenta.

Al di là della minima sanzione, la natura penale dell’infrazione consentiva indagini idonee alla ricostruzione delle illecite filiere di lavoro in nero e di sfruttamento in capo all’utilizzatore finale. L’abrogazione del reato ostacola l’intervento di un’autorità ispettiva, lasciando al debole lavoratore la dimostrazione della natura fraudolenta della somministrazione delle sue prestazioni.

L’opposizione alla moderna schiavitù diventa quindi diretto compito di tutta la società che giudica non abrogabile la tutela costituzionale dei lavoratori .