La principessa Diana ha conquistato l’amore universale finanziando l’assistenza a poveri, tossici e disoccupati. Oggi la sua fama è stata oscurata da un’inchiesta del Sunday People. Turning Point, una delle associazioni da lei prediletta, che nel 1985 elesse i figlioli William e Harry a regali protettori, questa estate ha licenziato 2.927 lavoratori per assumerne 351 con un «contratto a zero ore».

«Zero ore» significa che i lavoratori devono essere reperibili in ogni momento dall’azienda che deve soddisfare una commessa. Turning Point li usa per servire pranzo e cena alle mense dei poveri, per garantire l’assistenza ai tossicodipendenti o ai malati mentali e persuadere gli alcolisti a smetterla con la bottiglia. Chi accetta di lavorare a zero ore lo fa per poche settimane, seguite da pause lunghe, per poi tornare a lavorare. Senza riconoscimento della malattia, delle ferie, di un’assicurazione contro gli infortuni, insomma dei diritti fondamentali garantiti ai lavoratori dipendenti.

Il lavoro a zero ore riguarda un milione di persone in Inghilterra nel settore privato e in quello pubblico. Lo sostiene una ricerca del Chartered Institute of Personnel and Development (Cipd) che ha smentito l’ufficio nazionale di statistica secondo il quale gli iperprecari usa e getta inglesi sono «solo» 250 mila. Il governo Cameron non ne conosce la cifra esatta e si è impegnato ad accertarla.

I contratti a zero ore vengono utilizzati nella «nuova economia» da Amazon, nell’intrattenimento dalla catena Cinemaworld (l’80% dei 4500 impiegati), nei pub JD Wetherspoon, negli ipermercati del retail sportivo Sports Direct (20 mila precari a zero ore). Nello stesso modo si lavora nel servizio catering della Tate Gallery.

Anche a Buckingham Palace si usano contratti a zero ore. Nel palazzo della regina ci sono 350 part-time senza orario. Sono stati assunti questa estate, affiancano il personale assunto, guidano i turisti nella Disneyland reale. Lavorano nei negozietti dei gadget, fanno la guardia nelle stanze per evitare che un turista giapponese fotografi i bagni. Gli «zero ore» firmano un impegno a non lavorare per nessun altro durante la durata del contratto. La soddisfazione di lavorare per le altezze reali non ha prezzo, evidentemente.

Anche in Inghilterra la crisi si è fatta insostenibile. La Banca centrale inglese ha stabilito che non abbasserà i tassi d’interesse finché la disoccupazione non sarà scesa al di sotto del 7%. È una decisione importante: gli interessi sui mutui, così come quelli dei prestiti a un istituto di credito da parte della banca centrale, dipenderanno dal numero degli occupati. È l’ammissione che la capacità di consumo può rianimare il prodotto interno lordo. Per questo bisogna «fare massa» e conteggiare tra gli occupati anche il milione di «contratti zero»: con poche centinaia di euro in tasca anche loro potrebbero risollevare le sorti della nazione, investendo un gruzzoletto nel mutuo di una casa, ad esempio. Solo che i precari assunti per un pugno di settimane, o anche per qualche mese, non pagano i mutui e le banche non ci pensano nemmeno a concedergli un prestito.

È il meccanismo che ha portato all’esplosione della bolla dei mutui subprime negli Usa. Oggi si vuole che il tasso di disoccupazione si abbassi, ma si tengono bassi i salari. In questo modo i precari, che sono anche consumatori ma non possono acquistare e fare (nuovi) debiti, alimentano la recessione. Motore di questa commedia degli equivoci è nuovo proletariato giovanile – una parte cospicua del quinto stato diffuso nell’industria dei servizi alla persona, del tempo libero, in quella finanziaria, nella logistica – che svolge un ruolo di protagonista involontario della crisi in Inghilterra, come in Italia.

Il contratto inglese a zero ore ha un analogo nella legge 30 (conosciuta come «Biagi») del 2003: il «lavoro a chiamata», figura tipica del diritto del lavoro anglosassone introdotta in Italia. Ma è marginale nel nostro mercato del lavoro. La parte del leone la fa il contratto a termine a breve o brevissimo termine (meno di un mese). Secondo l’Isfol, nel 2012 il 42,5% delle assunzioni dei giovani è avvenuta così.

Il «contratto a termine» non è il «contratto a zero ore» inglese, anche se per qualche verso svolge lo stesso ruolo: risparmio su alcuni costi, contenimento dei salari, alta intercambiabilità dei prestatori d’opera. Come in Inghilterra, anche da noi il consumo del lavoro giovanile è contingentato, breve e brutale. Invece di arrestare questa deriva – su qualche tipologia Elsa Fornero aveva ristretto i margini di flessibilità – la si amplifica. Il governo Letta ha accorciato gli intervalli tra i rinnovi dei contratti a termine, soddisfacendo una richiesta delle imprese. Invece di abolire, o riformare, i 46 contratti precari esistenti, ne ha modificato uno in particolare: l’apprendistato.

Questo contratto, già non molto frequentato dalle imprese italiane, è stato snaturato dalla riforma Fornero: riguarda i ragazzi fino ai 29 anni, molti dei quali hanno già fatto stage o tirocini. Praticamente si resta «in formazione» a vita, un altro modo per occultare il precariato di massa. Il recente accordo sul lavoro all’Expo ha aggiunto un altro tassello al mosaico. Per i sei mesi della durata di questo «grande evento» verranno creati 640 apprendisti (regolati dal contratto nazionale dei servizi) e 195 stagisti. E si prevedono 18.500 «volontari».

Il lavoro gratuito è diffuso nel nostro paese, ma mai prima di oggi è stato «santificato» da imprese, sindacati e governo, Quirinale compreso. Una realtà inaccettabile persino in Inghilterra, dove almeno ci sono le «zero ore». In Italia no, perché si pensa che il lavoro gratuito sia un’esperienza «formativa» per i giovani che possono fare un’esperienza. Come al servizio civile. Magari all’Expo prenderanno contatti per l’ennesimo stage o incontreranno il principe azzurro. Nessuno pensa che siano anche loro dei lavoratori. Questo accordo sprigiona un paternalismo raccapricciante a cui i giovani non potranno sottrarsi. Perché non hanno alternative.

La rassegnazione dei sindacati ad accettare la precarietà (degli altri) come una realtà irreversibile, da regolamentare dov’è possibile con un contratto nazionale, è una tragedia. E lo è ancor più perché attesta una trasformazione impensabile fino a poco tempo fa: la precarietà riguarda un ristretto nucleo di apprendisti, mentre la stragrande maggioranza degli inoccupati lavorerà gratis o in nero. È improbabile che una popolazione di precari, divisa tra apprendisti e volontari, farà ripartire i consumi e tanto meno la crescita auspicata dal premier Letta.