Ogni cocomero arriva a pesare in media 20 kg ma se ne trovano anche di 30 e a volte di 40. Sono i frutti preferiti dell’estate e una buona parte della produzione proviene dall’Agro Pontino, a cento chilometri da Roma. A raccoglierli, ogni anno, migliaia di braccianti, spesso indiani.

Tra loro anche Ajit Singh, nome di fantasia per tutelarne l’incolumità. Ajit ha appena 30 anni ma ne dimostra molti di più. È nato ad Amritsar, capitale religiosa dello Stato indiano del Punjab, e da circa otto anni vive e lavora nel Pontino come bracciante alle dipendenze di padroni italiani e di caporali indiani. Da circa cinque anni, ogni estate, Ajit si sveglia alle 4,30 del mattino e insieme ad altri duemila suoi connazionali si avvia con la sua bicicletta verso il campo agricolo del padrone per lavorare alla raccolta dei cocomeri, pronto a spezzarsi la schiena e i polsi per dissetare italiani e turisti in questa Italia rovente.

COCOMERI PONTINI E SCHIAVI INDIANI, un binomio tragico. Secondo Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, istituto che ogni anno pubblica il dossier Agromafia, «i poteri criminali si annidano nel percorso che frutta e verdura devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani, passando per alcuni grandi mercati di scambio fino alla grande distribuzione. Il risultato è l’impennata dei prezzi, che per l’ortofrutta arrivano a triplicare nel passaggio dal campo alla tavola. Ciò vale anche per la filiera del cocomero, dove, anche nell’area del Pontino, sfruttamento, caporalato e una filiera ancora troppo lunga producono danni gravi ai diritti dei lavoratori, soprattutto stranieri».

Ajit mostra le sue mani che lavorano senza protezione, ormai consumate, graffiate, irritate dalla fatica quotidiana. Eppure non può fare a meno di lavorare sotto padrone italiano. Di alternative al bracciantato, nel Pontino, per un indiano, non ce ne sono. Almeno non per Ajit che peraltro parla un italiano stentato a causa di orari di lavoro sempre troppo lunghi che gli impediscono di frequentare corsi di lingua italiana. Le modalità per raccogliere quei giganti verdi sono le stesse da sempre. Bisogna chinarsi per raccoglierli da terra e lanciarli in cima al camion guidato dal padrone italiano o dal caporale indiano dove a riceverlo è un altro bracciante che li accatasta ordinatamente all’interno. Un processo ormai rituale.

La terra, racconta Ajit, si mischia sempre col sudore e brucia gli occhi. Brucia anche il sole che ogni giorno raggiunge i 40 gradi. Alla fine della giornata di lavoro si arrivano a perdere molti chili, poco e male recuperati con delle reidratazioni non sufficienti.

UN MEDICO VOLONTARIO CHE DA ANNI CERCA di aiutare i braccianti stranieri e che vuole restare anonimo, racconta di indiani svenuti, portati davanti casa sua e lì abbandonati. Rischiano ogni giorno un infarto per i carichi eccessivi di fatica e la loro esposizione al caldo estivo. Il medico dice di essere convinto che molti dei suoi pazienti indiani siano «morti che lavorano».
In primis per il rischio che corrono ogni giorno tra automobili che li sfiorano mentre vanno e tornano dalle compagne, poi per la fatica estrema a cui sono sottoposti, per l’assunzione da parte di alcuni di loro di sostanze dopanti e infine per lo svilupparsi, ancora lento ma costante, di gravi patologie. Sono patologie respiratorie, scheletriche ma anche tumorali per via dei veleni che inalano e restano nei polmoni, nel fegato o sulla pelle. Anche Amnesty è scesa in campo su questo tema.

SECONDO GIANNI RUFINI, DIRETTORE DI AMNESTY ITALIA, «quella dei braccianti indiani nell’Agro Pontino è una condizione disumana, per lo sfruttamento al quale sono costretti. Soprattutto in estate, durante la raccolta dei cocomeri, essa può diventare drammatica per la grande fatica alla quale sono sottoposti. Anche per questa ragione abbiamo organizzato, nel Pontino, un Campo Amnesty, cui parteciperanno decine di giovani attivisti dei diritti umani, dedicato ai diritti economici e sociali, e alle forti voci di denuncia e di speranza che si levano dal territorio. Partendo da lavoro, caporalato e nuove schiavitù affronteremo temi quali dignità, salute, casa e istruzione, nella convinzione che tutti i diritti siano fondamentali ed interconnessi, e che ogni persona abbia il potere di farli rispettare».

AJIT RACCONTA DI NON POTER TORNARE IN INDIA perché non ha ancora finito di saldare il debito che ha contratto con un trafficante indiano per averlo portato in Italia. Sono 12mila euro che cerca di pagare accettando ricatti e prepotenze del padrone. «Mi rompo la schiena tutti i giorni per appena 4 euro l’ora. Devo però dare circa 15 euro al giorno al caporale indiano che mi recluta per andare a lavorare nella cooperativa agricola del padrone. Funziona così. Alla fine guadagno circa 20 euro al giorno». Lavora anche 8 e a volte 10 ore al giorno con una pausa di poco più di un’ora nelle fasi più calde della giornata.
Mentre parla il suo sguardo è basso. Ajit ha anche partecipato allo sciopero organizzato dall’associazione In Migrazione e dalla Flai Cgil a Latina il 18 aprile del 2016, in piazza della Libertà. Era con altri quattromila suoi connazionali. Quella iniziativa ha prodotto per molti braccianti indiani pontini un vantaggio che lui stesso riconosce. «Il padrone mi ha aumentato la paga. Prima prendevo 2 euro l’ora e ora 4 ma è ancora troppo poco e poi alcuni padroni stanno tornando a pagare 2 euro perché mancano i controlli».

CARICARE I COCOMERI È UN LAVORO DIFFICILE. Braccia, schiena, collo, gambe e spalle sembrano spezzarsi la sera quando ci si stende sul letto. Alcuni braccianti indiani assumono metanfetamine, oppio o antispastici, come denunciato da In Migrazione, per reggere quelle fatiche estreme. Ogni giorno di lavoro ogni singolo bracciante indiano sposta quasi cento tonnellate di cocomeri. I ritmi di lavoro sono importanti.

Prima viene riempito il camion, prima il raccolto arriva sul mercato e dunque maggiore è il prezzo che il padrone o la grande distribuzione riesce ad ottenere. In questo senso i vantaggi per Ajit non esistono. A prezzo per chilo di cocomero più alto corrisponde un profitto maggiore per l’imprenditore agricolo e non certo per il bracciante che continuerà a guadagnare sempre 4 euro l’ora. Anche per questa ragione la riforma della grande distribuzione organizzata è fondamentale ma deve andare nella direzione di ridistribuire il valore economico lungo l’intera filiera della produzione a partire dai braccianti