L’ultima assemblea c’è stata domenica scorsa in una sala parrocchiale di Sant’Antimo: i lavoratori migranti del distretto del tessile disseminato nell’hinterland a nord di Napoli, tra Grumo Nevano, Casandrino e la stessa Sant’Antimo, si stanno organizzando per rivendicare condizioni di lavoro umane. Supportati dall’associazione 3Febbraio denunciano di operare in stato di schiavitù: 14 ore di lavoro al giorno senza pausa dalle 6.30 alle 20.30 dal lunedì al sabato, la domenica dalle otto di mattina alle cinque di pomeriggio, una paga che non supera mai i 3 euro all’ora e il sequestro del passaporto, una sottrazione di libertà di fatto. La produzione di capi a basso costo non ha subito flessioni ma la crisi è utilizzata per ridurre il compenso orario. Si tratta di operai bengalesi, ma anche pakistani e indiani, insediati nella zona da circa 20 anni. Lavorano in piccole sartorie negli scantinati dei palazzi, senza un’adeguata areazione e uscite di sicurezza, ammassati in 25, 30 per fabbrica.

Non solo italiani, i padroni spesso sono bengalesi o pakistani, arrivati in Campania con i capitali per avviare l’attività. Producono per grandi marchi (MotiviCamomilla) e gli intermediari sono tutti italiani. I migranti con i guadagni da fame, 250/300 euro al mese quando vengono pagati, devono poi affittare una casa, che significa dai 300 ai 500 euro al mese, più della loro paga e bisogna pure fare economie per spedire qualcosa a casa. A Sant’Antimo migranti e l’associazione 3F hanno una storia di lotte contro lo sfruttamento: già nel 2010 gli operai si ribellarono; allora gli intermediari che commissionavano i capi non pagavano o pagavano con molto ritardo le sartorie. La loro presenza sul territorio catalizza ed è in grado di organizzarare operai dell’abbigliamento, fino a San Giuseppe Vesuviano e Palma Campania. Tifur era uno stiratore, è tra quelli che hanno deciso di fare causa al datore di lavoro: «Ho iniziato a metà dicembre 2011 e sono stato mandato via il 30 aprile 2013. Mi ha cacciato perché avevo chiesto quello che mi spettava. Il mio padrone in patria è proprietario di 200 appartamenti, qui produce abiti per firme famose. Quando gli chiedevo quello che mi spettava diceva che non aveva soldi». Ma può succedere anche quello che è capitato a Sohel: «In un anno ho avuto 3mila euro. Circa 250 euro al mese, per 15 ore di lavoro al giorno. Ho pagato 10mila euro per venire in Italia: li ho dati alla stessa persona che poi mi ha preso a lavorare, al mio connazionale». «Abbiamo avviato cause di lavoro per un centinaio di operai, impiegati in quattro sartorie – spiega Gianluca Petruzzo di 3Febbraio -. Ma denunceremo anche per riduzione in schiavitù gli imprenditori italiani e bengalesi, chiedendo al prefetto che siano concessi a tutti i firmatari i permessi di soggiorno per motivi umanitari, così come previsto dall’ex articolo 18 della legge 40 sull’immigrazione». Il rischio è che i proprietari chiudano tutto, sparendo senza preavviso. Il 21 febbraio i lavoratori saranno in piazza a Sant’Antimo per la festa della lingua del Bangladesh, intanto preparano un documento per invitare gli italiani alla resistenza comune, perché anche per la manodopera locale il ricatto lavoro contro paghe da fame è diventato realtà.