La situazione rischiò di farsi incontrollabile nell’estate 1967. Molti ribelli vennero via via liquidati, anche con misure repressive gravissime, vi furono destituzioni al vertice, e alla base massacri di giovani e loro invio nelle campagne. Il compromesso fra il centro moderato e Mao Zedong fu più spinto negli anni 1970-71, in seguito alla gravissima crisi determinata dall’affare Lin Biao.

Il pericolo di una evoluzione verso la dittatura militare fu sventato, ma con una congiura di palazzo e con l’assassinio, metodi contro cui si era levata la rivoluzione culturale. Inoltre la rivincita dei moderati si tradusse in una ulteriore repressione della sinistra e dei giovani. La rivoluzione culturale era valsa a scongiurare che le tensioni all’interno fossero deviate verso mitici avversari esterni.

Contribuì a evitare che la Cina fosse trascinata in una guerra mortale verso cui tutto sembrava spingerla fra il ’65 e il ’66, dall’esterno con gli sviluppi della guerra nel Vietnam e dall’interno con l’esasperato nazionalismo.
Nel 1971 e nel 1972 i cinesi raccolsero i frutti positivi della rivoluzione culturale in politica estera. L’appoggio indiretto alla resistenza vietnamita, l’assenza dal gioco egemonico delle potenze, la solidarietà con le lotte operaie e giovanili negli altri paesi conferirono prestigio al governo cinese e gli consentirono di entrare all’Onu (ottobre 1971) e di trattare con i governanti Usa in posizione vincente.

Era il risultato della convergenza, in questo campo, della politica di Mao Zedong e di Zhou Enlai. Reciprocamente diffidenti i due statisti erano invece in politica interna, ma entrambi consapevoli della funzione complementare delle rispettive personalità. Il compromesso – un calcolato equilibrio fra i moderati e i superstiti della sinistra – fu sancito col decimo congresso nell’agosto 1973. Se la presenza delle due forti personalità poteva bloccare sviluppi drammatici, non annullava i contrasti fra i differenti strati sociali e fra le fazioni politiche, che la rivoluzione culturale aveva ormai messo allo scoperto.

La lotta andò esasperandosi fra il ’73 e il ’75, e la compresenza negli organi dirigenti di aderenti ai gruppi opposti determinò una condizione di paralisi sempre più grave, che non riusciva a essere scossa dal lancio ripetuto di nuove campagne di massa: la «rivoluzione nell’insegnamento», la «critica a Lin Biao e a Confucio», per «lo studio della teoria della dittatura del proletariato», per «le quattro modernizzazioni», per le «tre direttive come perno», per la «limitazione del diritto borghese». Promosse dall’una o dall’altra fazione, venivano immediatamente strumentalizzate dagli uni e dagli altri in direzioni opposte.

L’equilibrio apparente precipitò con la morte di Zhou Enlai (gennaio 1976), mentre lo stesso Mao era così malato, che la sua presenza pubblica pareva ormai quella di un fantasma. Era diventata impossibile la convivenza ai vertici del partito e del governo di dirigenti animati da odio reciproco, come Deng Xiaoping e Zhang Chunqiao. Ai primi di settembre del ’76, dopo la morte di Mao, fu giocata l’ultima partita. (…) Idee e ideologie non erano una invenzione gratuita dei gruppi politici: dietro e al di sopra della contesa era in gioco ben altra posta, e si celavano conflitti profondi.

Minoranze consistenti di operai e di quadri e larghe masse di giovani, maturate con la rivoluzione culturale, ne erano coscienti, ma anche per esse era scontato che i portatori dell’istanza rivoluzionaria non potevano essere gli squallidi dirigenti di vertice della sinistra. Un tentativo di colpo di mano per eliminare il gruppetto della sinistra dalla dirigenza ebbe luogo i primi di aprile 1976 (le celebrazioni di Zhou Enlai sulla piazza Tianan Men) con esito infelice: Mao intervenne un’ultima volta, favorendo l’ascesa di Hua Guofeng, una personalità di sinistra ma in equilibrio fra le fazioni. Consapevole che dopo la sua morte sarebbe «prevalsa la destra», si proponeva forse di evitare uno scontro frontale.

Ma i primi dell’ottobre successivo fu lo stesso Hua Guofeng a mettere in atto il colpo contro gli altri quattro membri dell’ufficio politico, Zhang Chunqiao, Jiang Qing, Wang Hongwen e Yao Wenyuan. Quella che fu presentata come una misura contro il fazionalismo e per il pieno ritorno all’ordine rivelò ben presto il suo reale contenuto: l’eliminazione dei resti della rivoluzione culturale e la piena riassunzione del potere da parte dell’apparato, che della stessa rivoluzione era stato il bersaglio.

Nonostante la passività delle masse, un attacco immediato alla politica di Mao non sarebbe stato concepibile e non era voluto almeno da una parte dei dirigenti. I moderati giocarono una carta vincente, indirizzando lo scontento fra il popolo verso il bersaglio facile dei mediocri leaders della sinistra, la cosiddetta «banda dei quattro». L’espressione, che presa, da alcune parole semischerzose di Mao designava da principio i quattro dirigenti destituiti e arrestati, fu poi impiegata con un senso più esteso, che includeva il periodo della rivoluzione culturale e i dieci anni successivi. La «banda dei quattro» diventava il capro espiatorio di tutti i mali passati e presenti della Cina.

 

Nel maggio ’77 Deng «tornò al lavoro», riassumendo il potere che del resto aveva già riconquistato nell’aprile ’73, e perduto nuovamente solo nel ’76. Ma un potere pieno, questa volta, da non dividere con un’opposizione consistente. Negli anni successivi, alla reintegrazione di tutte le persone già colpite o esonerate durante la rivoluzione culturale e alla promozione in posti chiave dei dirigenti più vicini a Deng, si è accompagnata la «resa dei conti» contro tutti gli esponenti della stessa rivoluzione culturale, col progressivo isolamento dello stesso Hua. L’azione è stata condotta gradualmente ma inesorabilmente.

Smantellate a poco a poco le ultime posizioni degli eredi della tradizione maoista, i tempi sono ormai maturi per l’attacco aperto a Mao. Questo è cominciato con l’eliminazione dall’Ufficio politico nel febbraio 1980 di Wang Dongxing, Chen Xilian, Wu De e Ji Dengkui, che pure erano stati protagonisti dell’eliminazione della «banda dei quattro», o l’avevano approvata, e con le celebrazioni pubbliche che hanno seguito la riabilitazione post mortem di Liu Shaoqi – la figura che, indipendentemente dalla più complessa e sfumata realtà storica, simboleggia l’alternativa a Mao. La voce della gente comune, e specialmente dei contadini, non arriva fino a noi e non conosciamo le loro opinioni sugli avvenimenti degli ultimi anni. Ma certo ne interpreta almeno in parte le reazioni Chen Yonggui, l’ex dirigente della brigata agricola di Dazhai, i cui programmi antitecnocratici e ultrademocratici sono fra i miti oggi demoliti.

Nel 1978, alla sua quasi messa in stato di accusa, così rispose: «So leggere pochi caratteri della scrittura, e non ho mai studiato il marxismo-leninismo. (… Se mi chiedete del tempo buono per seminare, dare il concime, sarchiare, posso dare una risposta giusta all’80%, dall’osservazione del tempo e dalla mia esperienza. (…) Sette-otto anni fa il presidente Mao mi ha voluto a lavorare nel comitato centrale., Gli ho risposto che in un incarico così importante non sarei stato a casa mia. (…) Dopo l’affare Lin Biao la banda dei quattro ha cercato di reclutarmi.

Il presidente mi ha detto; ’Vecchio diavolo, non far diventare la banda dei quattro banda dei cinque’. Dopo di che, non avevo neppure il coraggio di rispondere alle telefonate di Jiang Qing. (…) Non m’importa di essere un vice-premier o un membro dell’Ufficio politico. (…) La mia parte è sempre stata di arrotolarmi i pantaloni e coltivare la terra. (…) Ho già detto che a partire dal III plenum (luglio 1977) il comitato centrale del partito è andato incontro al pericolo della restaurazione capitalistica, ha eliminato la tavoletta del presidente Mao e cacciato via gli operai, i contadini e i soldati.

È tornato il fenomeno delle università gestite dagli intellettuali borghesi. Ho anche detto che il III plenum (…) non ha più parlato di linea né di lotta di classe, non ha più voluto la dittatura del proletariato, non si fonda più sui contadini poveri, e ha messo in atto il revisionismo invece del socialismo. Quando ho detto questo, volevano che rivelassi il nome dell’istigatore dietro le quinte. (…) ’Compagno Chen Yonggui, forse queste parole non vengono dal tuo cuore. Sei stato preso in mezzo per fare da capro espiatorio.

Per la solidarietà al partito e per accelerare le quattro modernizzazioni, devi prender posizione e rivelare il nome di chiunque ti ha fatto dire queste cose. Non ci sarà problema’. A queste parole mi sono sentito strano. Questo è il mio punto di vista. Perché dovrei implicare qualcun altro, sulla scena o dietro le quinte? (…) Io non posso tornare a Dazhai o andare in qualche altro posto. Non sono adatto a fare il dirigente del partito, posso essere un iscritto qualsiasi; non sono adatto a fare il quadro, fiosso fare il contadino».