Siamo a 10 anni di crisi. Risale ad agosto 2007, per la precisione a giovedì 9, l’inizio della Grande Crisi che avrebbe colpito lavoratori, stati e banche (soprattutto i primi) in tutto il mondo negli anni successivi, col congelamento da parte di Bnp Paribas di fondi per 1,6 miliardi per problemi legati ai subprime (i mutui concessi a persone sostanzialmente indigenti).

Il primo di una serie di eventi che avrebbe ridefinito l’agenda politica mondiale, distrutto patrimoni e carriere, riconfigurato la stessa prospettiva politica: il fatto di «essere in crisi» come cornice fondamentale della comprensione del presente.

Dopo tutto questo tempo le questioni che si pongono con più forza per un bilancio di questi anni sono: cosa ha lasciato sul terreno la «Grande Crisi»?

Auspicando un dibattito di ampie vedute che consenta ai movimenti e alle forze antiliberiste di posizionarsi rispetto alle sfide del futuro, solleviamo alcuni punti da cui una discussione significativa non può prescindere.

Primo, il ruolo delle banche centrali è diventato fondamentale con politiche vigorosamente espansive, con modalità diverse (si ricordino le famose lettere della Bce che impartisce istruzioni agli Stati in crisi..), come si manifesta nei loro bilanci sempre più mastodontici: triplicati dal 2007 fino a 22 trilioni di dollari (1 trilione = 1000 miliardi) nel 2014, secondo il governatore della Banca Centrale di Francia, mentre, nella sua Relazione annuale, la Banca dei Regolamenti Internazionali (giugno 2017) li valuta sopra i 24 trilioni.

L’enorme quantità di moneta riversata nel sistema tuttavia, come spesso puntualizzato da Marco Bertorello su queste pagine, non appare aver dato risultati consolidati sul versante della crescita.

Secondo, l’austerità è diventata una nuova ortodossia economica, con tagli sostanziosi alle pensioni (in 105 paesi), alla sanità (in 56 paesi), ai salari (in 130 paesi); privatizzazioni diffuse (in 55 paesi), con previsioni di impatto di contrazione del Pil entro il 2016-20 per 132 paesi (studio ILO 2015).

Terzo, indebolimento dei Brics. Fra le potenze emergenti solo Cina e India rimangono con tassi di crescita sostenuti (entrambe volteggiando attorno al +7% , l’una in tono calante, l’altra più altalenante), mentre Sudafrica, Russia e Brasile attraversano forti difficoltà economiche: crescita risicatissima per il primo, negativa per il secondo e nettamente negativa per il terzo.

Chiaramente è presto per considerarli fuori dai giochi ma sicuramente la modificazione dei rapporti di forza è un effetto rilevante del contagio internazionale della crisi sparso dai paesi avanzati, ed oggi è arduo vedere i Brics come un gruppo compatto, operativamente capace di porsi come polo alternativo a Usa e Ue.

Ad un deciso riassetto geopolitico contribuisce anche un incremento di politiche protezionistiche da parte un po’ di tutti – specie gli Usa, in cui ben prima di Trump l’amministrazione Obama ha messo in campo misure di tal genere, riproponendo un liberoscambismo a geometrie variabili funzionale agli interessi nazionali.

E alla fine, banche e debiti pubblici. Questi ultimi si sono ingigantiti, passando per il complesso dei paesi avanzati dal 72% al 106% sul Pil (i paesi emergenti e quelli più poveri solo dal 35% al 48,5%). Le banche private, da parte loro, sono diventate meno e più grandi.

Secondo gli ultimi dati della Bce negli ultimi dieci anni sono scomparse 700 banche nell’Ue ma il volume delle loro attività è cresciuto (per una ricerca della Banca Centrale polacca fra il 1998-2012 di circa due volte e mezzo), quindi hanno aumentato le loro dimensioni.

Si tratta di trasformazioni formidabili: il nostro mondo è cambiato e senza capirne le modalità non riusciremo a migliorarlo.