Di cosa parliamo quando parliamo di stomaco, di intestino, di cuore? Frank González-Crussí, con Organi Vitali (traduzione di Gabriele Castellari, Adelphi, pp. 339, euro18,00), prova a trascinarci all’interno del corpo umano in una girandola di aneddoti, di citazioni, di informazioni tecniche, che la sua competenza scientifica – è professore di anatomia patologica alla Northwestern University – e la sua erudizione gli consentono di governare con disinvolta ironia. Questo viaggio è motivato, dichiara, da una constatazione e da un’intenzione. La constatazione è che: «La medicina del ventunesimo secolo si prende cura materiale del corpo con coscienza meticolosa…. ma liquida senza tanti riguardi la dimensione personale». Come conseguenza di questa attitudine scrive González-Crussí: «Ruolo dell’infermo è di sottomettersi passivamente e di abbandonarsi con fiducia nelle mani dei professionisti della salute; i quali naturalmente prendono in esame il corpo astraendolo dall’individuo sofferente cui appartiene».

A fronte di questa deplorevole situazione, considerata del tutto normale nelle società del mondo occidentale, l’autore cerca di illustrarci non soltanto i «meri fatti dell’anatomia (ma) la storia, i simbolismi, le meditazioni, le molte idee serie o fantastiche, e anche il romanzesco e il leggendario che attorniarono nel corso dei tempi i nostri organi interni».

Al termine di una lettura che scorre rapida e spesso divertente è possibile dichiarare questa intenzione compiuta? Che immagine del corpo umano viene alla fine costruita, tra un fuoco d’artificio e il successivo? Che rapporto si stabilisce, in conclusione, tra questa immagine del corpo umano e quella discussione sulla medicina del ventunesimo secolo alla quale si finisce comunque per partecipare e, soprattutto, tra questa immagine e quell’idea meccanicistica o addirittura «macchinistica» che ne sarebbe il fondamento? Quello che González-Crussí descrive non è in effetti un percorso anatomico, ma una storia della mutevole idea che società diverse e culture diverse hanno nel tempo sviluppato sul funzionamento di alcuni organi e di alcuni apparati e sul ruolo che è stato loro attribuito nell’equilibrio complessivo del corpo.

Lo stomaco, ci informa l’autore, è stato considerato per secoli il re dei visceri capace di governare il funzionamento del corpo ma anche di rappresentare le emozioni, da Galeno a Tito Livio, fino a Shakespeare e a una pervicace tradizione medica: «Il medico italiano Alessandro Benedetti … definiva la bocca dello stomaco il padre di famiglia, poiché la salute di tutto quanto il corpo era vincolata al (suo) regolare funzionamento». Concetti non troppo dissimili sono attribuiti da González-Crussí a Paracelso e a numerosi altri medici fino all’inizio del XIX secolo e il loro superamento viene ricondotto alle ricerche di un medico americano, William Beaumont che, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, studia con dedizione maniacale per circa trent’anni un giovane franco-canadese, Alexis St. Martin, sopravvissuto miracolosamente a una ferita di guerra che aveva prodotto una comunicazione permanente tra lo stomaco e la cute, una fistola di circa 6 cm di diametro, attraverso la quale era possibile analizzare direttamente le secrezioni e l’attività dello stomaco nelle sue diverse fasi di funzionamento. Una sorta di cavia umana, a pagamento, che sembra anticipare, per eccesso, quella esecrata medicina del XXI secolo «che liquida senza tanti riguardi la dimensione personale».

La descrizione meticolosa che González-Crussí ci fornisce delle circostanze della lesione riportata dal povero Alexis St. Martin, delle sue caratteristiche e delle sue modalità di guarigione, è una testimonianza delle competenze professionali dell’autore e della sua capacità di raccontare in modo vivace e comprensibile anche aspetti scabrosi, se non ripugnanti, della pratica medica. Di questa capacità González-Crussí si serve con sapiente disinvoltura, aiutato dalla traduzione ricca di sfumature di Gabriele Castellari, per affrontare il tema spinoso del colon retto e del ruolo che questo ha svolto, insieme a quello altrettanto ineffabile delle deiezioni fecali, in contesti culturali diversi seguendone la vicenda dai cinesi, agli atzechi fino alla medicina vittoriana.

Si apprende così, con naturalezza, che la teologia atzeca considerava gli escrementi un segno di disgrazia e di degrado ma anche una fonte di potere e di fortuna, tanto che l’oro era rappresentato come escremento della divinità del sole, residuo sotterraneo del suo viaggio per raggiungere gli inferi. Nello stesso modo si segue senza fastidio la storia millenaria dei clisteri o la frenesia chirurgica che spinse un medico vittoriano, William Arbuthnot Lane, ad asportare il colon per evitare la stasi delle feci all’interno del corpo e eliminarne la supposta tossicità. Con la stessa leggerezza si parla dell’utero e del ciclo mestruale, del pene e dell’erezione, dei polmoni e della tubercolosi, infine del cuore e del suo ruolo nel sistema circolatorio e nelle passioni.

Emerge certamente da questo affresco una visione della medicina come costrutto sociale, ma si tende inesorabilmente a collegare una visione olistica del corpo umano alla sua dimensione simbolica o addirittura magico-religiosa. Sembra quasi che la crescita delle nostre conoscenze, nell’introdurre una visione quantitativa e scientificamente fondata della biologia e della fisiologia, man mano che ci consente di analizzare l’organismo nella miriade delle sue componenti, ci allontani in modo irreversibile dalla comprensione del sistema e delle intricate interrelazioni che lo caratterizzano. È una interpretazione il cui eccesso nostalgico di relativismo sembra non cogliere gli aspetti forse più interessanti nella evoluzione scientifica e culturale della medicina: per un verso l’abbandono delle certezze in favore delle incertezze misurabili e, per altro verso, il passaggio da un’idea della malattia come allontanamento da una supposta normalità alla idea della malattia come rischio e come esperienza individuale.

Per molti secoli la medicina ha costruito un sapere «morfologico», è stata una disciplina dei segni e dei sintomi, ha poi provato a diventare una «scienza» delle cause (se sono esposto al micobatterio della tubercolosi mi ammalerò di tubercolosi), è diventata più modestamente, senza smarrire la sua natura descrittiva e il suo orientamento causale, una disciplina delle probabilità: se i miei genitori erano diabetici, se il mio stile di vita è sedentario, se la mia alimentazione è inappropriata, se.. allora… E di nuovo una sequenza di se.

Quello che è accaduto è, in sostanza, il superamento di un relativismo definito dal succedersi nel tempo di certezze diverse a favore di un relativismo statistico che occupa il presente e che ci impone un confronto quotidiano con l’incertezza, con dimensioni di questa incertezza che noi vorremmo sempre più piccole, ma che non possiamo eliminare. Certo, dunque, l’uomo e la donna, non sono macchine, ma questo non avviene semplicemente perché la loro straordinaria complessità non consente di conoscere tutti gli ingranaggi dei quali possiamo considerali composti e tutte le sollecitazioni alle quali sono sottoposti: non sono macchine perché in questa complessità rimane qualcosa di irriducibile a una misura che non sia una misura di probabilità come se, da questo punto di vista, la medicina, come disciplina sociale, potesse trovare un punto di contatto con la fisica e con il principio di indeterminazione di Heisenberg.

Non c’è poi malattia senza soggetto malato, non c’è malattia senza esperienza e senza racconto; non suona del tutto convincente l’idea che la medicina contemporanea abbia espulso il soggetto dalla patologia e dalla cura, perché la tendenza recente, e comune a tutta la medicina occidentale, è semmai quella opposta, con un investimento e una responsabilizzazione delle persone implicate che sembra in qualche caso eccessiva e che per evitare il rischio di paternalismo lascia spesso troppo soli a governare l’incertezza e la sofferenza. Una ricomposizione della centralità e della unitarietà del soggetto malato non può dunque avvenire contro i numeri e le misure, comprese le misure dell’incertezza, ma deve avvenire anche attraverso i numeri affiancando le persone nella comprensione del significato e della rilevanza di questi numeri, aiutandole a decidere, ad affrontare meglio la malattia e la sofferenza e, in ultimo, ad accettare anche la fine della propria esistenza.