All’Expo di Milano, nel celebrato Padiglione Zero, ho fatto una scoperta sorprendente. Una delle tante immagini dedicate ai problemi alimentari e ambientali, mostrava una piantagione di palme da olio, mentre la didascalia informava che essa serviva a proteggere la foresta amazzonica. Chissà quante migliaia di persone si sono lasciate persuadere da quel messaggio. Ma è accettabile questo modo di proteggere la più vasta foresta pluviale rimasta sulla Terra? Il fatto che si abbattano alberi non per costruire edifici, per aprire nuovi pascoli, per impiantare latifondi di soia gm, ma altri alberi, le palme, è una operazione ambientalmente benefica?

Vecchi alberi sostituiti da nuovi alberi? Ma quando si abbattono i vecchi alberi, in Amazzonia, si fanno sparire per sempre piante millenarie. E non è solo questo il mutamento e il danno più rilevante. La foresta pluviale costituisce il bacino più ricco di biodiversità presente sul pianeta. Non si abbattono solo gli alberi, si distrugge un ecosistema di grande complessità e ricchezza, comprendente uno numero incalcolabile di mammiferi, rettili, uccelli, anfibi, insetti, e poi erbe, arbusti, piante, fiori molti dei quali ancora sconosciuti alla scienza.

Ad essere sconvolta è poi la chimica del suolo, la piovosità locale, il regime delle acque, il clima. Dunque si annienta un patrimonio millenario con i suoi sconosciuti equilibri per impiantare una monocultura industriale concimata chimicamente e difesa dai parassiti attraverso gli antiparassitari. Si tutela così l’Amazzonia?

Questa esperienza mi induce a svolgere qualche riflessione su ciò che dovremmo intendere per natura e per ambiente, due realtà ben diverse, che richiedono strategie e comportamenti umani fra loro differenziati.

Il termine ambiente, quale sinonimo di mondo naturale, ha assunto solo di recente tale significato. Nell’800 indicava un milieu sociale o culturale e solo nella seconda metà del ‘900 il termine è stato curvato (e inflazionato) a significare la natura vivente. In realtà, con la parola ambiente noi indichiamo normalmente la natura così come la esperiamo in Italia e in Europa, vale a dire in un’area del mondo antropizzata da alcune migliaia di anni. Qui ogni cosa, dell’assetto naturale originario – foreste, macchie, perfino laghi e fiumi – è stata profondamente rimodellata dall’azione umana. Questo è quel che si chiama ambiente, mentre è natura la Foresta amazzonica, prima che diventi ambiente con le monoculture di palma.

Occorre dire che la distinzione non è sempre cosi semplice e così netta. Come definiremmo oggi la Savana africana? Quella vasta distesa pianeggiante, punteggiata di radi alberi e arbusti e popolata da leoni, zebre, elefanti, giraffe, ecc.? Che cosa c’è di più naturale nell’immaginario occidentale? Eppure – lo hanno scoperto i geografi nel secolo scorso – la Savana è opera dell’uomo. E’ il risultato della distruzione della foresta originaria, operata dalle popolazioni col fuoco e i vasti diboscamenti a fini di caccia, creazione di pascoli, coltivazioni. Quella che i turisti osservano come natura sono i relitti di una radicale distruzione degli antichi ecosistemi. E’ comprensibile dunque che allorché un nuovo ordine naturale si viene a creare a opera degli uomini occorra parlare di ambiente e non di natura. E non certo per capziose ragioni semantiche, ma per le diverse strategie di umano comportamento che essa richiede. La natura va conservata così com’è, l’ambiente, che costituisce un ordine artificiale, va tenuto nel suo nuovo equilibrio dall’opera umana che l’ha creata.

Qualche esempio ci conduce ai problemi dell’oggi. Questa estate ho compiuto un’escursione sul Monte Reventino, nel Parco nazionale della Sila. Scendendo per i boschi verso il comune di Decollatura, sono stato letteralmente assediato da uno spettacolo che non poteva sfuggire neppure a un occhio distratto. Centinaia e sicuramente migliaia di alberi erano ricoperti e sopraffatti da un rampicante, spesso biancheggiante per i suoi fiori a cascata. Ho riconosciuto la terribile vitalba (Clematis vitalba). Molte aree erano letteralmente sommerse, tanti alberi erano già secchi, scheletri che si alzavano al cielo in mezzo a una vegetazione rigogliosa e caotica. La vitalba – che Columella consiglia di utilizzare in insalata, come sanno ancora i nostri contadini – è una infestante di terribile vitalità: si arrampica sugli alberi formando lunghissime liane e ha radici sotterranee che crescono come la parte aerea della pianta.

Abbandonato a se stesso, nel giro di un decennio quel bosco popolato da castagni, cerri, pioppi, ontani, e innumerevoli arbusti sarà probabilmente distrutto. L’ambiente sarà definitivamente sconvolto, ma vincerà la natura, con il suo vitale e straripante disordine.
E’ auspicabile che ciò accada? Lasciamo che gli alberi, piantati dagli uomini, utili un tempo alle loro economie, vadano in rovina? E se si vuole intervenire, che cosa occorre fare? Chiedendo a un contadino del luogo ragione dell’invasione della vitalba, mi ha spiegato che un tempo il problema non si poneva, perché il bosco era battuto dagli animali. Ci pensavano le capre, le pecore, i maiali a tenere a bada quelle e altre infestanti. Saggia e persuasiva spiegazione, perché il bosco è una creazione dell’uomo, ed è la sua presenza, la sua manutenzione quotidiana che mantiene in un equilibrio economicamente e ambientalmente vantaggioso quell’ordine artificiale da esso stesso creato.

Il caso del Monte Reventino è paradigmatico e denuncia un deficit culturale e politico, una assenza di informazione di rilevante gravità. I nostri boschi sono in una condizione di abbandono e di inselvatichimento. Ho visitato l’Aspromonte di recente e ho trovato i suoi maestosi pini ricoperti da sterminate “nuvole” di nidi di processionarie che ne determineranno la morte. Boschi immensi e un tempo meravigliosi sono assediati da eserciti di parassiti che avanzano di anno in anno scacciando ogni presenza umana. I castagneti di tutto il nostro Appennino sono infestati da un terribile parassita, il cinipide, che impedisce da anni ogni raccolto. Mentre ovunque avanza, dall’Emilia in giù, la macchia selvatica e i rovi.

Anche la questione dei cinghiali, emersa drammaticamente ad agosto, appartiene allo stesso ordine di problemi. Questi animali immessi nelle nostre selve per ripopolare esemplari da caccia, in virtù anche della loro crescita spontanea, si moltiplicano sempre più nelle aree abbandonate della nostra Penisola. Il loro numero debordante li porta ad invadere le campagne, a danneggiare le coltivazioni ad arrivare agli abitati in cerca di cibo. Ma anche i cinghiali come i nostri boschi denunciano che l’ordine artificiale, l’ambiente creato dagli uomini, non è più curato, mantenuto nei suoi equilibri ed è lasciato alla degradazione. E questo avviene perché sono state abbandonate le antiche economie, svuotati gli abitati, scomparsi i mestieri, perduti gli umani presidi che governavano il rapporto con l’habitat locale. Così i precedenti vantaggi goduti dalle popolazioni si trasformano in danni e minacce per le nuove.

Non può dunque non stupire (fino a un certo punto) il recente accorpamento, voluto dal governo Renzi, del Corpo delle guardie forestali con l’Arma dei carabinieri. Non che le guardie forestali siano sufficienti ad affrontare i problemi accennati , ma indebolirne l’istituzione non è certo il modo migliore per fronteggiarli. In realtà l’iniziativa governativa mostra indirettamente l’ignoranza grave e perdurante delle nostre classi dirigenti dei problemi del territorio nazionale.

Stiamo perdendo patrimoni naturali immensi, interi paesi e borghi, estesi pezzi di Penisola, potenziali luoghi di ricchezza e umano benessere, luoghi in cui sono stati investiti nei secoli e decenni illimitate risorse e lavoro e nessuno, in Italia, fiata. Che paese è mai questo dove si fa deperire la ricchezza reale e stuoli di economisti, truppe di dirigenti politici e sindacali ci assordano ogni giorno con le loro ricette di crescita senza nessun cenno al territorio?