«Picchi come un vegeteriano» dice a Schwarzy a Sly la prima che s’affrontano nella superprigione retta dal feroce direttore Hobbes (sì, il riferimento al filosofo è voluto) che sogna una super-Guantanamo. Si sa: per i super-eroi dell’action movie ottantesco è tempo di team-up. Come per gli eroi in calzamaglia che si trovano a condividere avventure con i multicolori colleghi, anche per gli ultimi esponenti del cinema muscolare analogico, caduto in disuso verso la fine degli anni Novanta, è finalmente giunto il tempo della riscossa.

È stato Sylvester Stallone ad avere per primo quest’idea del team-up con il capostipite di Expendables richiamando dalla pensione forzati dell’action relegati allo straight to video come Dolph Lundgren, nobilitando wrestler come Steve Austin, arruolando «nuovi arrivati» come Jason Statham e conferendo al tutto il crisma della legittimità hollywoodiana apponendo all’operazione i cameo di Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger. Attento gestore della propria mitologia, Sly ha orchestrato il suo ritorno in funzione di un intero genere, creando così un vincolo di classe e di identità con gli ultimi combattenti di un cinema popolare e di rapido consumo. E se i momenti più sublimi dei due capitoli di Expendables sono i veloci scambi di battute fra Sly e Schwarzy, Escape Plan s’incarica di realizzare un wet dream testosteronico: avere Rambo e Commando insieme sullo schermo per la durata di un intero film. Il fascino, irresistibile, dei team-up è tutto qui: vedere volare insieme i propri supereroi preferiti.

C’è quindi poco da stare a storcere il naso evidenziando presunte falle di sceneggiature o la straordinaria abilità con la quale due vecchietti se le suonano senza pietà restando miracolosamente in piedi, sparando con la micidiale precisione di cecchini entusiasti. Eppure Escape Plan non usa iperboli. Anzi: per essere un actioneer ottantesco, il film rievoca piuttosto classici carcerari come Brubaker e certe atmosfere «rollerballiane» da fantascienza distopica.

L’ambientazione del supercarcere, un panopticon le cui celle ricordano quelle usate da Richard Burton ne L’esorcista 2 di Boorman per portare alla luce le memorie di Regan, è il contraltare perfetto della fisicità dei due protagonisti. Il carcere, inteso come inferno attraverso il quale l’eroe deve passare per ritrovare se stesso, processo che Stallone ha già affrontato nell’ottimo Sorvegliato speciale di John Flynn, è anche il luogo che ratifica la statura di ritornanti dei due eroi. Passando attraverso la morte rappresentata dal carcere, Sly e Schwarzy celebrano un rito palingenetico che si fonda su un desiderio dell’identico (ossia vedere nuovamente gli eroi amati molto tempo fa) che francamente commuove nella sua dichiarata ingenuità.

Mikael Håfström gestisce molto bene gli spazi e lascia ai due protagonisti tutto lo spazio possibile. Schwarzy in particolare si concede il vezzo di usare il natio tedesco, minacciando un secondino di strappargli i testicoli e infilarglieli nell’ano, cosa che i sottotitoli riducono a un «bonario» «Ti faccio a pezzi!». E anche se la premessa sembra inquietantemente pro-carcere, il piacere con il quale Sly e Schwarzy fanno saltare la fortezza-prigione non lascia adito a dubbi.

Guantano esce con le ossa rotte da Escape Plan e vien da sorridere se si pensa che tanto Schwarzy è stato detestabile da governatore tanto è irresistibile da star. Siamo sempre al dilemma godardiano John Wayne-Goldwater (chi se lo ricorda?), ma solo uno come Sylvester Stallone poteva scommettere con tanta certezza che, nel buio della sala, almeno noi, avremmo fatto la scelta giusta.