Rosy Bindi attraversa il Transatlantico con un sorriso che non finisce più, perché il nome del compagno di antiche battaglie era la sua prima scelta e «mi sono stata zitta apposta». Nichi Vendola, che con lui condivise gli anni nella commissione antimafia, dal 1994 al 1996, quando all’ora di pranzo ufficializza il suo appoggio alla candidatura lo descrive come «figura limpida sul piano morale e politico». I cronisti più «anziani» ricordano l’uomo riservato e rigoroso, disposto a mediare ma non a cedere sui principi, uno che «la salva Silvio», per dire, «non la farebbe passare mai».

E una domanda rimbalza tra i capannelli del Transatlantico: «Ma Renzi sa chi si sta mettendo in casa?».

Perché Sergio Mattarella è una figura sbiadita nella memoria corta della politica arrembante, e se anche il Mattarellum, la legge elettorale che porta il suo nome, dopo anni di devastante Porcellum è rimpianta da tanti, sono tanti anche quelli che del padre del sistema che introdusse i collegi uninominali sanno poco.

Ma il low profile del giudice costituzionale arrivato a un passo dal Colle, giura chi lo conosce bene, non deve essere confuso – e il sospetto, appunto, è che anche il premier sia stato tratto in inganno – con malleabilità, accondiscendenza, obbedienza, se del caso.

Insomma, se Renzi pensava a un presidente pronto a subire i suoi colpi di ingegno o meglio di furbizia, ha fatto male i conti.

A quanto si racconta, non ha invece avuto dubbi Fedele Confalonieri, colui che più di ogni altro sarebbe stato determinante nel far recedere Berlusconi dalla fortissima tentazione di dare il semaforo verde a «Sergiuzzo». Matarella, appunto, nato a Palermo nel 1941, figlio del navigato democristiano Bernardo, fratello di Piersanti – ucciso in un agguato mafioso nel 1980 – «moroteo» ai tempi della Dc, entrato in parlamento nel 1983 e più volte ministro e anche vicepremier di Massimo D’Alema (con cui ha stretti rapporti e che un ruolo, nel suo avvicinamento al Quirinale, raccontano lo abbia avuto). Fu uno dei primi sostenitori della candidatura di Prodi, nel ’96. E sarà tra gli estensori del manifesto fondativo del Pd.

Nei giorni scorsi, quelli delle voci fatte filtrare ad arte, si è raccontato che persino l’ex Cavaliere avesse un ricordo offuscato di Mattarella, tanto da non ricordare nemmeno famosi episodi che lo riguardavano direttamente. Difficile crederci, arduo non ritenere che il leader forzista fosse pronto a gettarsi vecchie storie alle spalle pur di restare aggrappato al carro renziano.

Impossibile che non ricordasse una circostanza in particolare. Era il luglio di un altro millennio, e Paolo Cabras, senatore della sinistra dc, scuoteva il capo sconsolato conversando con Miram Mafai: «Non è mai successo che il parlamento fosse chiamato a tutelare gli interessi di una sola persona».

Da allora, l’estate del 1990 sull’orlo di una crisi di governo, molte altre volte il parlamento sarà chiamato a tutelare gli interessi di una sola persona. La stessa di quella prima volta: Silvio Berlusconi. La «discesa in campo» era là da venire, l’«amaro calice» ancora vuoto, ma sul proscenio della politica c’era chi tutelava gli interessi del tycoon brianzolo con ferma determinazione: Bettino Craxi. Nemmeno oggi Berlusconi può fregiarsi del titolo di onorevole. Ma seppure disarcionato, seppure con un partito sbrindellato, ora come allora riponeva le speranze in un «uomo forte» che sapesse prendersi a cuore le sue stesse preoccupazioni, quel Renzi tante volte accostato alla figura dell’ex leader del Psi.

Uno dei protagonisti di quella quasi crisi di quasi 25 anni fa fu appunto Mattarella, ministro della pubblica istruzione del sesto governo Andreotti. Erano i tempi del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) e dopo aspri scontri si decise di mettere la fiducia sulla legge Mammì difesa da Craxi a costo di far cadere il governo. La legge sanava le reti di Berlusconi, lanciava l’impero del Biscione e l’inossidabile duopolio tv.

«Ci siamo dimessi. Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia inammissibile», annunciò Mattarella anche a nome degli altri ministri della sinistra dc Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino (la Mammì, tra l’altro, non recepiva le indicazioni sugli affollamenti pubblicitari).

Possibile che l’ex Cavaliere abbia dimenticato anche gli scontri in suo nome? Come quando Buttiglione, dopo aver conquistato, nel 1994, la segreteria del Ppi (Mattarella si dimise per questo dalla direzione del Popolo) un anno dopo perse per tre voti il Consiglio nazionale. Si votava sull’alleanza con il Cav. voluta da fratello Rocco e Mattarella ballò e cantò con Bindi e Castagnetti per l’esito insperato (poi volarono stracci e carte bollate) e l’attuale candidato presidente della Repubblica coniò un indimenticato «el generale golpista Roquito Buttillone».

Dell’ingresso di Fi nel Ppe e dei tentativi del Cavaliere di intestarsi l’eredità di De Gasperi, Mattarella disse cose come Berlusconi «pensi a quando gli Unni e i Vandali invasero l’impero romano, che non era casa loro, provarono a fare i romani, ma essendo barbari non ci riuscirono».

Due giorni fa Renzi aveva detto ai parlamentari Pd che sulla figura del futuro presidente andava costruita una «narrazione». E ieri ha ricordato, di Mattarella, la lotta alla mafia, la «ferma» difesa della Costituzione, che è uno «dei pochi dc che si sono dimessi». Insomma, «un candidato dalla schiena dritta e che sa dire di no».

Un nuovo Scalfaro, teme Berlusconi. E chissà che lo stesso premier, tra l’esultanza di Bindi, l’ombra di D’Alema e i tanti dubbi dei costituzionalisti sulle riforme in discussione, non nutra a questo punto preoccupazioni.

Senza contare che il Quirinale è capace di trasformare anche le figure più riservate in protagonisti assoluti.