Le pubbliche vicende della pandemia mostrano il consueto inganno italiano: l’inadeguatezza dei politici scambiata per inadeguatezza delle istituzioni. Il sistema delle competenze Stato-Regioni-enti locali delineato dalla Costituzione (e dalla Corte costituzionale) non garantirebbe l’efficace gestione dei problemi, e quindi andrebbe riformato.

Intanto, la domanda è se l’adeguatezza della nostra Costituzione sia misurabile attraverso i comportamenti di politici come Fontana, Zaia, De Luca o Spirlì, e se la Costituzione sia un vestito da modificare per adattarlo a ruoli istituzionali interpretati così come costoro fanno. Ovviamente è la stessa domanda ch’era possibile porsi con le riforme volute da Renzi (2016), Calderoli (2006) o dalla bicamerale D’Alema-Berlusconi (1997), tutti ansiosi di additare la Costituzione quale causa dei mali d’Italia od ostacolo alla loro cura.

Qualcuno potrebbe avanzare l’argomento del forte consenso di cui tutti i politici citati godono o hanno goduto: ma è l’argomento di chi ignora che la forza della Costituzione è esattamente davanti alle maggioranze che dev’essere chiamata in causa, non certo davanti alle minoranze. Non ci sono mai stati argomenti giuridici urgenti né convincenti dietro a tutte le riforme costituzionali approvate o respinte negli ultimi 25 anni.

L’ultima, quella sulla riduzione del numero dei parlamentari, voluta fortemente dai 5Stelle, è stata grottesca: Di Maio, Bonafede o Taverna si sono rivolti ai cittadini chiedendo “Volete voi meno Di Maio, Bonafede o Taverna? Come a dire: “È vero che di gente come noi meno ce n’è meglio è?”. I cittadini (al referendum) hanno assecondato tale disarmante richiesta ma, guarda caso, nello stesso giorno (alle regionali) non hanno mancato di voltare le spalle, quasi come riflesso incondizionato, proprio ai 5Stelle che l’avevano confezionata. Il discredito giocato da una categoria contro se stessa è già sufficiente a spazzarla via (e non spetta agli altri salvarla da se stessa).

Cosa c’è che non funziona nei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, tale da richiedere una riforma costituzionale? Niente di rilevante. Fuori dal chiasso mediatico, l’ingrediente-chiave di tali rapporti, già ampiamente noto ai giuristi, è la leale collaborazione (come ha ricordato Laura Ronchetti): ovvero, il comportamento che insieme alle regole scritte è in grado di farli funzionare veramente. Chi crede che la leale collaborazione sia qualcosa di astratto o fumoso (o, peggio, da buonisti) ignora che, al contrario, è un comportamento dettagliatamente descritto dalla Corte costituzionale.

A molti degli attuali Presidenti di Regione, “governatori” secondo il chiasso mediatico, non interessa la leale collaborazione: interessa alimentare il chiasso.
Mentre il Governo attuale cercava di interloquire con le Regioni nella gestione della pandemia, alcuni loro Presidenti erano troppo impegnati a mettersi in mostra dicendo sempre qualcosa di diverso, in un ruolo oppositivo al Governo che non solo è il contrario del ruolo collaborativo costituzionalmente imposto, ma è anche un ruolo che nessuna norma ha mai loro assegnato.

La triste verità è che alcuni Presidenti di Regione vanno ormai indicati come i nemici principali delle Regioni italiane. Sono loro il problema, non le Regioni come istituzioni. Invece di esaltarne il ruolo (che potrebbe essere molto utile alla democrazia), alcuni Presidenti lo affossano, innescando la reazione negativa dell’opinione pubblica contro tali livelli di governo e preparando così il terreno per riforme accentratrici (che, invece, non sono mai un buon segnale per la democrazia).

*Ricercatore in diritto pubblico