Deal or no-deal, questo è lo strazio. Con la scadenza del primo gennaio in rotta di collisione, ormai sembrerebbe prevalere il secondo.

Boris Johnson l’ha detto in tivvù, mentre tutta Europa tornava a barricarsi in casa con ben altre preoccupazioni: i negoziati con i nostri amici europei sono “finiti”. Ci si prepari al peggio, ha insomma fatto capire, mentre addossava tutta la responsabilità dell’imminente fiasco alla controparte. «Li ha effettivamente interrotti l’Ue col dire che non intendono mutare la propria posizione negoziale», ha aggiunto.

Al distanziamento sociale, insomma, fa eco quello negoziale.

Londra vorrebbe un rapporto di libero scambio con i 27 come quello che l’Ue ha con il Canada, cosa che il blocco sonoramente rifiuta. In mancanza di meglio, Johnson ripiegherebbe su un rapporto più simile a quello che Bruxelles ha con un altro dominio della corona, quello con l’Australia. Che è, in buona sostanza, imperniato sulle regole della World Trade Organization, con tanto di odiose tariffe e vituperatissimi dazi.

Non basta che Emmanuel Macron – fino a qualche giorno fa determinato a preservare l’accesso dei pescherecci francesi alle acque territoriali britanniche dello status quo ante – abbia in buona sostanza abbassato la cresta accettando la sovranità ittica di sua maestà.

In questa tenzone all’ultima lisca, ambo i contendenti continuano nella guerra di posizione negoziale, tanto che a forza di bluffare – come già era accaduto per il referendum nel 2016, che doveva dare uno scossone ai politici nazionali e ha finito per darlo invece al paese e all’Europa intera – la possibilità che Londra e Bruxelles si ritrovino senza un accordo, il famigerato no deal, rischia davvero di diventare l’unico risultato concreto.

Tatticismi a parte, il premier Johnson vuole preparare il paese all’impatto e cercare di mandare avanti uno stoccaggio di prodotti e materie prime la cui urgenza è moltiplicata dalla micidiale sinergia Covid-Brexit.

Ma davvero siamo alle ultime battute? Gli ultimatum reciproci in chiave strategica ormai non si contano più.

Anche se Michel Barnier, il capo negoziatore dell’Ue, si è detto pronto a venire a Londra la prossima settimana a metterci l’ennesima pezza, il deal pare ormai in picchiata verso il no.

Certo, è successo molte volte in passato, ripetono gli ottimisti: a pochi metri dall’impatto qualcuno ha sempre tirato la cloche. E poi “Boris” fa come gli hanno ripetutamente suggerito il sodale Trump e i suoi, formatisi alla ruvida scuola di Porta Portese: minacciare sempre il dietrofront per indurre la controparte a scontare la merce.

Ma stavolta è diverso. È cambiato l’ordine di importanza (e gravità) delle componenti del reale, la gerarchia che separa l’utile non dal dilettevole, ma dal sano.

Per la prima volta nella storia umana, non soltanto europea e ancora meno in quella britannica, il mondo pensa, studia, teme la stessa cosa. Che non è certo la miserabile British Exit.