«Non c’è soluzione al cambiamento climatico senza i membri del G20. Questi paesi sono responsabili di circa l’80% delle emissioni e di oltre l’80% dell’attività economica globale». Così, il direttore generale del Wwf in Australia, Dermot O’ Gorman, ha commentato un episodio significativo avvenuto nel suo paese: la rimozione di alcuni cartelli pubblicitari, commissionati dalle organizzazioni ambientaliste ed esposti all’aeroporto di Brisbane.

Il primo cartello mostrava un agricoltore nel sud del paese che ha subito perdite per 25.000 dollari nei suoi vigneti a causa di un aumento della temperatura a 46 gradi. Il secondo era stato posizionato nella zona in cui, il prossimo 15 e 16 novembre, si svolgerà il vertice del G20. Raffigurava un gruppo di pompieri preoccupati per il moltiplicarsi degli incendi per effetto del cambiamento climatico.

Un tema che l’Australia, principale esportatore di carbone al mondo e uno dei principali inquinatori, non ha nessuna intenzione di mettere fra le priorità del summit, come ha già anticipato in estate, durante le riunioni preparatorie.

I cartelli sono stati rimossi perché troppo «politici» e l’appello dei rappresentanti della società civile dei paesi del G20 che chiede misure per ridurre le disuguaglianze e il riscaldamento globale è stato ignorato. «Oltre la metà dei poveri vive nei paesi del G20 e sette persone ogni 10 vivono in paesi dove le disuguaglianze sono cresciute a partire dagli anni ’80», ha affermato Tim Costello, presidente di Civil 20, invitando i governi ad adottare urgentemente leggi e riforme tributarie per costringere le grandi imprese (e i multimilionari) a pagare le tasse e a non inquinare.

Da Pechino, dove ha partecipato al Forum economico Asia e Pacifico, il primo ministro australiano, il neoliberista Tony Abbott, ha risposto che il G20 contribuirà alla crescita mondiale creando posti di lavoro mediante il libero commercio e gli investimenti in infrastruttura: il modello delle maquilas (le fabbriche messicane ad alto tasso di sfruttamento del lavoro) e quello delle grandi opere a elevato tasso di devastazione territoriale, adottato da gran parte dei paesi che partecipano al G20.

Ma i movimenti sociali, sostenuti dai governi progressisti dell’America latina, continuano a organizzarsi e a farsi sentire: anche in quei paesi che, come Argentina e Brasile (membri del G20), con una mano lavorano alla giustizia sociale, con l’altra spingono sul pedale del “modello estrattivista”, senza troppi intralci per le grandi multinazionali. Il 4 novembre, 27 delegazioni di alto livello (provenienti da Brasile, Cuba, Arabia saudita, Usa, Norvegia, Russia, Uruguay, Argentina….) hanno partecipato alla riunione della PreCop sociale e ministeriale sul Cambiamento climatico, che si è svolta in Venezuela nell’isola Margarita.

Ong e movimenti sociali hanno messo a punto un documento di 84 punti, poi presentato ai ministri e pronto per essere inviato alla Conferenza Onu sul Clima, che si svolgerà a Lima, in Perù, tra il 1 e il 12 dicembre.
Un’iniziativa messa in moto dall’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez, a Copenaghen, nel 2009: «Per cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema», aveva detto Chavez, interpretando il sentimento dei movimenti popolari, reiterato anche nel corso delle ultime manifestazioni contro il cambiamento climatico.

«La causa strutturale della crisi climatica – dice ora il documento dei movimenti sociali – si radica nei sistemi politici ed economici basati su un modo di produzione e consumo insostenibile che genera iniquità, ingiustizia e povertà. Gli accordi, le strategie e i meccanismi disegnati e sviluppati nella Convenzione devono essere diretti a produrre cambiamenti strutturali, specialmente nei paesi sviluppati». Un tema delicato, quello dello sviluppo, maneggiato con cautela anche nei paesi latinoamericani che, come il Venezuela, hanno al centro della costituzione e del programma, l’ecosocialismo: «Non accettiamo che i grandi paesi industrializzati e le loro transnazionali, dopo aver depredato per oltre 100 anni le nostre risorse naturali, ora pretendono di imporci limiti allo sviluppo, strumento indispensabile per superare povertà e asimmetrie sociali», ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Rafael Ramirez.

«Dobbiamo trovare un modo di produzione alternativo, valorizzando tutte le economie anticapitaliste esistenti, a partire da quelle contadine, indigene», ha sostenuto invece il sociologo Boaventura de Sousa Santos. I movimenti hanno chiesto di partecipare ai vertici e alle decisioni. Poi, hanno rafforzato la denuncia di Nicolas Maduro contro il fracking, la tecnica di fratturazione idraulica impiegata per estrarre petrolio e gas, causa di gravi danni all’ecosistema.