L’edizione 2017 del Festival MilanOltre è ricca di pièce coreografiche scelte individuando alcuni focus e accostando titoli in apparenza distanti. Come è accaduto sabato sera, quando al Teatro dell’Elfo sono andati in scena Corpus Hominis della compagnia Enzo Cosimi e, in prima nazionale, Me So You So Me della compagnia canadese Out Innerspace Dance Theatre. Sulle prime, due declinazioni del teatro-danza strutturalmente molto diverse, due testi la cui forma sembra appartenere a tradizioni di scrittura lontane, due modi di usare il corpo quasi polarizzati.

I movimenti della coreografia di Cosimi sono a tratti sporchi, convulsi, michelangiolescamente “non-finiti”, seguono il battere/levare dell’accoppiamento dei corpi più che quello della musica, la pulsazione del desiderio sessuale più che quella del suono, consegnata alla performance intensa del giovane Matteo Sedda; tematizzano in modo esclusivo la Differenza dell’amore omosessuale come ricerca a tratti disperata di accoppiamento, che talvolta si sostituisce alla stessa idea di coppia, finendo per diventare un movimento senza coreografia, una danza senza pensiero, una solitudine affollata di corpi.

Dentro quella Differenza, tematizzano un’altra differenza, la sessualità dei gay anziani, un tabù nel tabù, impersonato da Lino Bordin e reso esplosivo dal fatto che il suo corpo segnato del tempo e quello giovane di Sedda interagiscono nudi; il linguaggio della danza si mescola a quello del video (su uno schermo vediamo un montaggio di filmati amatoriali che vanno dagli anni ‘70 ad oggi e mostrano, alla Bukowski, erezioni, eiaculazioni, esibizioni e storie di ordinaria follia, tra cui atti di omofobia, proteste ecc.) e a quello della semplice registrazione vocale: la seconda parte dello spettacolo, una volta che gli interpreti se ne sono andati, lascia il pubblico già accalcato disordinatamente attorno allo spazio scenico solo e illuminato ad ascoltare le interviste di uomini anziani che raccontano la loro vita da gay. Quel che resta della finzione coreografica della prima parte cede al puro documentario, costringendo gli spettatori a guardarsi e creando una tensione tanto perturbante quanto quella creata dai corpi nudi in movimento della prima parte.

I movimenti della coreografia di David Raymond e Tiffany Tregarthen sono invece nitidi, a tratti distesi e sempre conclusi, seguono il perpetuo alternarsi e confliggere dei principi junghiani di Logos e Eros, animus e anima, maschile e femminile (che non si incarnano simmetricamente in uomo e donna, ma si mescolano in entrambi), nello spazio fisico/simbolico descritto da una coppia eterosessuale, interpretata magistralmente dagli stessi coreografi: la contesa e la pacificazione, la manipolazione e l’ascolto, il desiderio di sopraffazione e quello di lasciarsi guidare dall’altro, il monologo e il dialogo, il narcisismo e l’amore si smescolano seguendo con precisione millimetrica la pulsazione ritmica della musica.

Tematizzano la differenza tra i sessi, o semplicemente la differenza tra individui che cercano di unirsi e restare uniti senza alcuna specificazione storica o sociale: la coreografia, fatta soprattutto di passi a due, regna sovrana sulla pièce, presentificata da proiezioni luminose che trasformano i corpi, vestiti e truccati, in schermi (le uniche parole messe in campo sono quelle proiettate).

Insomma, due esplorazioni suggestive e in qualche modo complementari del mito di Aristofane nel Simposio di Platone, che ci mostrano gli esseri umani, lacerati e isolati dalle saette di Zeus, mentre tentano incessantemente, senza distinzione di sesso, genere o identità, di ritrovare l’unità perduta.