Prima del grande esodo verso Ovest durante la corsa all’oro e dopo la Guerra civile ci furono i Mountain Men. Erano cacciatori di pellicce (trappers), aprivano piste, commerciavano con gli indiani, si indianizzavano. Stavano via anni nella terra selvaggia del Middle West, e poi (se non si fermavano «lassù» con la loro squaw) tornavano periodicamente indietro, alla rozza civiltà che avevano lasciato, per vendere le pelli di castoro raccolte. Non accumularono profitti per se stessi ma arricchirono, aiutandoli a fondare imperi economici, uomini come John Jacob Astor e le Compagnie delle pellicce. Partivano da St. Louis, sul Missouri, da dove, con guide francesi, gradualmente risalirono il fiume fino alle sue sorgenti nel Montana.

Questi solitari uomini di frontiera furono quindi anche esploratori e, per necessità di sopravvivenza, buoni conoscitori dei costumi degli indiani di quelle regioni (Blackfeet, Piegan, Pawnee, Mandan, Crow) che odiarono e amarono. L’epopea devastante delle pelli non durò a lungo negli Stati Uniti. Quando con il dipinto The Trappers’ Return (1845) il pittore George Caleb Bingham inizia a dedicarsi a questo soggetto ‘pittoresco’ è in ritardo: il fenomeno stava già entrando nel passato.

D’altro canto, la storia del West, nelle sue fasi (sono diverse dal 1830 al 1890), è sempre stata una storia postuma, quasi mai, se non in qualche autobiografia, raccontata dai suoi protagonisti. Né l’interesse per questo mito contraddittorio pare essersi mai smorzato. La produzione western, revisionista rispetto ai dime novels e ai successi di Louis L’Amour e di Zane Grey (del quale Meridiano Zero ha pubblicato quest’anno Il ranger del Texas), continua ancora oggi, spesso a alti livelli (si pensi a Cormac McCarthy, che è, tuttavia, un caso a parte).

L’editoria americana è ancora pronta ad accogliere nuove storie sul West, e anche l’italiana. Lo prova Revenant (2003) di Michael Punke, recentemente apparso presso Einaudi.

Il recupero di Il grande cielo (1947) di A.B. Guthrie Jr. (a cura di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 449, euro 16,90), primo romanzo di una saga di tre, già proposto da Mondadori nel 1950 e poi da Rizzoli nel ’77, sembra rispondere, in veste di capostipite, alla chiamata di riassestamento neostoricista di un genere letterario tradizionalmente imprigionato negli stereotipi del cowboy e delle carovane del progresso e della speranza: la vena hollywoodiana (almeno fino a Soldato blu e Balla coi lupi) nella quale l’«unico indiano buono è l’indiano morto» (lo ricorda anche Guthrie). C’è da chiedersi se nel 1947, nel pieno della fioritura western in celluloide, Guthrie non intendesse reagire alla tradizione ricevuta e ai suoi tempi spettacolarizzata nella povertà di ogni sapere antropologico. Sembrerebbe di sì, stando a quanto egli stesso afferma a proposito della genesi del Grande cielo: «L’idea mi venne nel 1940. Mi venne perché, per quanto ne sapevo, non era mai stato scritto un racconto onesto sugli uomini della frontiera. Tutto era romanticizzato, idealizzato, ogni cosa e persona resi eroici».

Nato nel 1901 nel Montana, dove ancora sopravvivevano i paesaggi imponenti e verginali conosciuti dai mountain men (il «Grande cielo» è uno dei soprannomi del Montana), a Guthrie la storia era stata raccontata in modo diverso, e proprio perché ‘storia’ (e non mito) richiedeva la ricerca e, per quanto possibile, il rispetto dei fatti. Un impegno mantenuto e affermato anche dalla gradualità cronologica con cui egli affronta il problema, limitandosi nel Grande cielo agli anni che vanno da 1830 al 1843. Il suo protagonista si chiama Boone Caudill, in onore di Daniel Boone, lo scopritore del Kentucky, lo Stato da dove prende avvio il romanzo con la fuga di Boone dalla casa del padre, un uomo che di un indiano morto si «era tenuto lo scalpo e aveva conciato la pelle per farne una coramella per rasoi». Tanto vale la pelle di un indiano a differenza di quella di un castoro o un bisonte: un dettaglio minore ma prezioso in una storia di «pelli». Certo è che il figlio, lasciando la cultura patriarcale che lo ha formato, porterà con sé quella coramella. Sarà da vedere se, dopo i tredici anni passati nella wilderness del Nord a cacciare prede da pelliccia, Boone tornerà cambiato al suo punto di partenza.

È questa la sfida narrativa che Guthrie consegna al suo personaggio, accompagnandolo in un viaggio iniziatico sul Missouri, un’odissea fluviale che ricorda quella congolese di Cuore di tenebra. Ma qui l’incanto del paesaggio vuole essere terapeutico: «era un mondo enorme, un mondo di altezze e profondità che annebbiavano l’immaginazione. Si aveva la tentazione di ritirarsi in se stessi, come tartarughe … tutto sembrava essere stato pensato per un gigante; era come se le proporzioni fossero impazzite … Anche l’anima tendeva a essere estrema. Il giorno prima si era levata in volo, sentendosi libera e selvaggia, insignificante fra quelle immensità fisiche tanto da perdersi alla vista di Dio e della Sua ira». L’ira del Dio biblico sarà stata provocata dai momenti in cui l’avventura di Boone nel paesaggio è interrotta dai contatti con i nativi, dalle battute di caccia, dai tecnicismi cruenti dello scuoiamento, commentati dalla tacita pietas che subentra nell’osservare la morte di un bisonte: «Gli occhi del bufalo si stavano spegnendo. Ora aveva uno sguardo dolce, intenso e reso più morbido dalla luce che lo stava abbandonando». Altri occhi spaventati animano la traversata nel cuore del territorio, quelli di Teal Eye (Occhio d’Anatra), la principessa indiana che la barca su cui viaggia Boone riporta fra la sua gente, una restituzione che acquista valore culturale, sebbene svilito alla fine della storia. Se per un verso Boone assimilerà i modi indiani, per l’altro non saprà rinunciare al gioco di spogliazione (troppe le sequenze tipologiche che si ripetono). Imparerà a riconoscere la sacralità della natura ma finirà con l’uccidere il suo migliore amico. Sarà un uomo con due anime, come altri che, andando «lassù», afferma Guthrie, «vivono una contraddizione, contaminando un mondo che apprezzano per la sua purezza».

«È tutto rovinato», confessa Boone nel 1843 quando, sconfitto da se stesso, ritorna alla civiltà dei bianchi. Sotto la pressione di una nuova pagina della storia, a Dick Summers, la vecchia guida di Boone, è affidata una morale elegiaca che appare tuttavia un po’ sbrigativa: «Avevamo i castori, una terra libera e un modo meraviglioso di vivere, e sembra che tutto ciò che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto contro noi stessi e che, anche se lo avessimo saputo, non avremmo potuto fare altrimenti. Siamo partiti per fuggire da qui e goderci la libertà, ma era destino che la gente ci seguisse e che i castori finissero e che gli indiani venissero uccisi o ammansiti, e che quei posti divenissero sempre più conosciuti e sicuri. Non abbiamo ancora visto la fine, Boone; non abbiamo ancora visto il risultato di tutto ciò che gli uomini di frontiera hanno fatto contro di sé. Il prossimo passo sarà fare da guide e organizzare spedizioni e rovinare ancora di più il territorio». Nel 1841 si apriva ufficialmente la «pista dell’Oregon». Al suo arrivo a Independence, poco a monte di St. Louis, Boone osserva la sponda del fiume brulicante di carovane di migranti.

Una nuova epopea stava iniziando, la più grande, la più romanticizzata, la più giustificata dal «destino manifesto». Con Il sentiero del West, premio Pulitzer 1950, Guthrie riprendeva il racconto per seguire il cammino della Storia.