Sono passati 50 anni dalla rivolta di Reggio Calabria. Quando, dal luglio 1970 al febbraio 1971, la città fu messa letteralmente a soqquadro. Dopo una lunga fase, a partire dal secondo dopoguerra, in cui teatro dei conflitti erano state le campagne e le fabbriche, esplode per la prima volta una rivolta urbana con caratteri di massa, ma egemonizzata dalla destra reazionaria.

PER SETTE LUNGHI MESI, con la parola d’ordine «boia chi molla», un comitato d’agitazione presieduto dal missino Ciccio Franco si oppone in tutti i modi, anche con l’uso della violenza, fino a conoscere l’uso di mezzi blindati nelle strade, alla decisione del governo di assegnare il capoluogo del nascente istituto regionale a Catanzaro. Per la destra si presenta un’occasione irripetibile per ridare vigore alla strategia della tensione (un anno prima la bomba e la strage di Piazza Fontana), che cerca di contrastare la nuova dinamica politica che attraversa il paese con l’avanzata comunista del 1968 e gli anni dell’«autunno caldo».

La Calabria si presta a trasformarsi in un laboratorio insurrezionale per le sue antiche frustrazioni, la rabbia che cova, l’emarginazione economica che la relega all’ultimo posto tra le regioni nella graduatoria del reddito pro capite e della disoccupazione. Si soffia sul malcontento popolare puntando sul tema unificante del campanile offeso nella sua “dignità”. Anche la Curia reggina scende in campo a sostegno della rivolta. Il 22 luglio un atto di sabotaggio provoca il deragliamento del treno del Sole presso Gioia Tauro. Il bilancio è di sei morti e cinquanta feriti. Si svaligiano le armerie della città. Una bomba esplode nei locali della Questura di Reggio provocando due vittime. A Catanzaro, in piazza Grimaldi, mentre si svolge una manifestazione antifascista, una bomba uccide Giuseppe Malacaria, operaio, e ferisce altri dieci partecipanti.

VALENTINO PARLATO sul manifesto settimanale (n.10-11, 1972) scrive: «Se si volesse fare una graduatoria sociale dei sostenitori di Reggio capoluogo, in prima fila verrebbero i dipendenti comunali, in generale persone con un mestiere rimediato, frustrate dal favore ricevuto e che nella rivendicazione del capoluogo hanno un’occasione di ricambiare il favore ai potenti e, al tempo stesso di darsi uno straccio di ideologia e di dignità. Seguono gli edili e i sottoproletari dai mille mestieri Da questi due gruppi, dai giovani e dai ragazzi (come sempre nelle rivolte di popolo) sono venuti i protagonisti delle barricate Gli altri gruppi, artigiani e commercianti, come anche la piccola borghesia impiegata nello Stato e nel parastato, hanno avuto solo funzione di sostegno morale».

E ALFREDO REICHLIN su Rinascita (n.33, 1970) fa una critica severa al partito che «a Reggio si è fatto sorprendere dal movimento municipalistico e, per un certo tempo, non è riuscito a farsi ascoltare da masse che pure esprimevano una fortissima protesta sociale Per troppi anni in Calabria i compagni sono stati divisi sulla piattaforma di lotta. Fino a qualche mese fa essi si sono logorati in astratte contrapposizioni tra riforma agraria e industrializzazione, tra problemi delle zone disgregate e problemi della pianura, tra occupati e disoccupati ».

I MOTI DEL ‘70-’71, benché rimossi, hanno segnato profondamente la vita della città e della regione. Il famoso “pacchetto” Colombo, di cui il pezzo più consistente era il Centro siderurgico di Gioia Tauro che, da solo, avrebbe dovuto dare occupazione a 7.500 operai, si è dissolto nel nulla. La sua logica era profondamente sbagliata e non corrispondeva affatto alle reali esigenze di sviluppo del territorio.

Dietro la facciata del campanile, l’oggetto vero dei moti era il controllo della Regione come nuovo grande centro di potere e di erogazione di risorse. La città sede del governo regionale avrebbe beneficiato di migliaia di assunzioni e i partiti al governo avrebbero avuto un grande vantaggio clientelare. Sta qui la ragione dell’ambiguità e della reticenza dei partiti nazionali, ad eccezione del Pci. Da Roma non è mai arrivata una netta sconfessione dell’adesione che i gruppi dirigenti locali dei partiti di maggioranza avevano dato alla rivolta.

Ma aldilà dell’adesione o meno ai moti di piazza, aldilà dei personaggi locali, più o meno folcloristici, che si assumono la responsabilità dell’organizzazione e della guida della rivolta, sono le forze politiche, in primo luogo Dc e socialisti, che tirano le file delle questioni sollevate dai moti. La vicenda di Reggio nasce e si svolge nei partiti, e non al di fuori. Testimonia i limiti e le contraddizioni di una modernizzazione disordinata, basata su logiche campanilistiche e particolaristiche. Sta qui il peccato originale della Regione Calabria.

NEL VUOTO POLITICO e di governo è drammaticamente cresciuta la ‘ndrangheta, l’illegalità diffusa, il degrado sociale e ambientale. A distanza di 50 anni dai tragici avvenimenti di Reggio, il problema più grande resta quello di liberare la Calabria dalla presenza invasiva (e oppressiva) di un ceto politico povero di idee e di cultura, che non è mai riuscito a diventare classe dirigente. Un ceto politico sempre pronto a cambiare casacca, interessato unicamente al mero controllo delle leve del potere e all’allargamento della rete clientelare.