Come milioni di ragazze prima di lei, Agatha (Mia Wasikowska) scende dai gradini di un pullman e «atterra» a Hollywood. La aspetta Robert Pattinson con una limousine scura come quella di Cosmopolis, ma non è una di quelle lunghe, si scusa. Perché non ne avevano più.

Lei arriva da Jupiter/Giove (che però è un paesino della Florida), ha braccia e gambe foderate di stoffa nera e cicatrici che le salgono dal collo, come tatuaggi, fino a coprire un lato del volto. Lui – come milioni di ragazzi prima di lui- si guadagna da vivere facendo l’autista mentre insegue una carriera di attore. L’auto nera si inerpica su per la colline ma la casa che Agatha cercava è stata rasa al suolo. Non importa dice lei – tanto magari adesso cerco Carrie Fisher che ho conosciuto prima via Twitter e poi ho incontrato a una convention di fans di Star Wars. Frutto della penna del Dickens della postapocalisse californiana Bruce Wagner, filtrata dall’occhio implacabile di David Cronenberg, Map to the Stars (in concorso ieri) non è una satira. E soprattutto non è una satira su Hollywood. Cronenberg adotta la fiction grandiosamente tragicomica di Wagner (nato e cresciuto all’ombra dell’industria del cinema. Da giovane faceva l’autista delle star. I due sono amici e il regista ha prodotto il primo film dello scrittore, I Am Losing You), i suoi personaggi, per uno degli horror più crudeli che ha mai fatto – un horror profondamente biologico, dove però lo splatter è filosofico, non della carne. E che non ha nulla a che vedere con produttori senza scrupoli e artisti idealisti. Più Mullholland Drive (con pennellate di Minnelli e Wilder) che The Player, Maps è infatti un film dove i sogni sono infranti già dall’inizio.

Agatha scende da quel pullman non per fare carriera ma per portare a termine una missione di morte rimasta incompiuta molti anni prima. Grazie a Carrie Fisher (che ha conosciuto via Twitter e poi a una convention di Star Wars…) trova lavoro come segretaria da un’attrice pluriquarantenne, Havana Segrand (Julianne Moore), che pensa di risollevare la carriera in declino interpretando la parte che fu di sua madre, Clarice Taggart, nel suo film più famoso – un melodramma in bianco e nero dove due giovani amanti rotolano nell’erba sul testo di una poesia di Paul Eluard.

Recuperata la temerarietà di cui era stata capace in film come Safe e Magnolia, Moore offre un’interpretazione desmondiana, «senza rete». Alimentata da una dieta di pillole, massaggi, lusinghe e terapie psicofisiche di ogni tipo, Havana «si fa» di Valentino a 18 mila dollari al colpo e interroga Agatha sulla sua vita sessuale obbligandola a farle compagnia mentre sta seduta sul gabinetto. Poi, un giorno che si sente particolarmente insicura si fa scopare dal ragazzo di lei sul sedile posteriore dell’auto. Sospetta che ereditare il mitico ruolo della madre non sia un’idea sana, ma lo desidera così tanto che, alla notizia che il figlioletto della rivale è affogato in piscina (e quindi l’altra non accetterà la parte), si mette a ballare di gioia come una pazza.

Ma non è lei l’unico «mostro». Maps è pieno di personaggi che desiderano identità che appartengono ad altri e lottano ferocemente per difendere meschinità abissali. Benjie Weiss (Evan Bird) è una star tredicenne appena uscito da un centro di disintossicazione. Ha la lingua che taglia come un rasoio e la cinica altezzosità di chi ha visto tutto prima ancora di aprire gli occhi. Suo padre Stafford (John Cusack) è un guru che dispensa massaggi e teorie di self help da baci Perugina a miliardari fragili. Nasconde un segreto, già diventato una maledizione di famiglia, e farebbe qualsiasi cosa per non danneggiare il tour promozionale dell’ultimo libro. Anche Agatha non è una santa, mente sull’origine delle sue cicatrici e forse da piccola ha dato fuoco al fratellino….

E il timido autista? Sta con lei perché vuole scrivere una sceneggiatura a partire dalle sue cicatrici. Forte di una mise en come al solito rigorosissima ed essenziale (la fotografia di Peter Suschitzy che cattura bene la luce bianca di Los Angeles e come sottolinea la durezza dei contorni), Cronenberg fa sua la struttura sfrangiata della letteratura di Wagner, quelle architetture verbali iperboliche che poi, come bolle, finiscono in niente, le trame che si fermano di colpo senza conclusioni logiche.

L’accumulazione di dettagli precisissimi dietro a cui nasconde il vuoto. L’incesto è uno dei temi ricorrrenti che attraversano la storia. Ma è anche un incesto metaforico – come se i personaggi sconfinassero uno nell’altro. Così preoccupati di sé che non esistono più, sono diventati fantasmi. Da sempre Wagner scrive del disconnect – dello scollamento dalla realtà. Sulla carta quello scollamento è trattato con momenti di compassione, e occasionale empatia. Sullo schermo (cronenberghiano) solo ferocia.