Nato da un cortometraggio del 2013 che aveva riscosso un enorme successo su YouTube, Cargo – produzione Netflix firmata dagli esordienti Yolanda Ramke e Ben Howling – rielabora il genere zombi nei paesaggi sconfinati dell’Outback australiano. Ma più che alle recenti variazioni sul genere come The Walking Dead, Cargo è debitore alla visione postapocalittica di un film come La strada di John Hillcoat, e soprattutto al romanzo di McCarthy da cui è tratto.

Gli zombi sono infatti solo «accessori» di un mondo che quando incontriamo il protagonista – un padre (Martin Freeman) infettato dal virus e che prima di tramutarsi lui stesso in zombi deve mettere in salvo la figlia neonata – è già sprofondato nel caos: non resta che una sparuta umanità alle prese con il day after di un’apocalisse che, ci viene fatto capire senza troppe sottigliezze, siamo noi stessi ad aver scatenato. Fin qui niente di nuovo, ma è proprio su quest’elemento di «denuncia» che il film innesta la sua ambizione politica: l’apologia delle popolazioni aborigene che incarnano un rapporto «sano» con la natura e la comunità spezzato dallo stesso uomo bianco che le ha decimate – in quella che finisce per essere però una classica rappresentazione del «buon selvaggio».