Dobbiamo parlare dei morti. Le cronache dell’ epidemia che si espande nel mondo e in Italia si è manifestata ai primi di febbraio di quest’anno 2020 e ancora dura, oggi, che siamo al 15 di maggio, raccontano di morti sepolti uno via l’altro senza alcuna cerimonia funebre. Dicono di figli e di figlie che non hanno potuto esser vicini alle madri ed ai padri nei giorni estremi della malattia mortale. Raccontano di camion militari messi a disposizione delle autorità civili e adibiti, nell’emergenza, al trasporto delle salme da inumare in cimiteri che fossero ancora in grado di accogliere altri morti.

Le cronache dell’attuale epidemia registrano il numero delle decine e decine di infermieri e medici che han contratto in forma letale il contagio negli ospedali. Vanno ad aumentare il numero delle vittime quotidiane salito, secondo calcoli prudenziali e forse non completi, fino al numero di 400 per portare, in due mesi e mezzo, nella sola Italia, ad oltre 31.000 i decessi tra i colpiti dal virus. E pare leggero il costo di vite che il morbo nella recente fase esige, quando il regime di segregazione degli abitanti nelle case, durato almeno otto settimane, imposto per necessità di salute pubblica, ha contenuto le occasioni di contagio e i calcoli giornalieri riportano, al momento, un sensibile calo dei casi mortali che si attesterebbero intorno al centinaio.

La morte è la morte, una ed eguagliatrice. Ma morire si muore in tanti e tanto diversi modi. Ed è il modo del morire che segna il lutto di chi vive e resta indelebile nella memoria famigliare o si imprime come esemplare nella memoria pubblica. C’è dunque il morire che è proprio dei tempi dell’epidemia. Uno speciale morire.

Nell’epidemia il morire occupa intero il campo d’ogni relazione e giunge ad annullare ogni distinzione tra sano e malato, tra giovane e vecchio, tra ricco e povero. È un morire che si afferma quale unica presenza. Come lo sguardo della Medusa del mito, immobilizza lo svolgersi della vita che si dipana in ogni attività consueta, domestica e privata, pubblica e collettiva. Elide ogni altro tempo che non sia quello del suo essere presente.

Ostruisce il pensiero del futuro e sospende ogni continuità attiva con il passato. Blocca i tempi poliedrici, multiversi, differiti e asincroni oppure armonici e coincidenti del consorzio umano. Li fissa tra la presenza delle morti degli altri già compiute, e un mio possibile morire che quelle mi annunciano. Un mio morire atteso, imminente, che incombe qui, tra noi, ora, che ancora morti non siamo. L’epidemia traduce l’indicativo presente io sono vivo nel perifrastico io sono per essere morto.

Così, la presenza esclusiva del morire che è l’epidemia si attesta in angoscia, in dolore non risarcibile, disperazione e terrore. Presenza che travolge, rovescia e atterra, con i corpi, i costumi e le idee. Tale è il racconto della peste di Atene che ci ha lasciato Tucidide quando: «Gli uomini schiacciati dalla strapotenza del male, di fronte a un ignoto destino, divennero del pari indifferenti a ogni cosa divina e umana. Furono sovvertite tutte le consuetudini».

Così accade, aggiunge, «nel momento del dolore». E del «praesens dolor» ci dice Lucrezio che si dispone a meditare sulla condizione umana alla implacabile, spietata luce del morire per epidemia, allorché si è uccisi da «qualcosa con la quale non abbiamo consuetudine,/che ci possa colpire con una presenza improvvisa (aliquid quo non consuevimus uti,/quod nos adventu possit temptare recenti)».

Lucrezio si attiene strettamente alla pagina di Tucidide la cui parola traspone in forma poetica. E, con lo strazio che prende dinanzi agli innumerevoli corpi dei morti, Lucrezio conclude il suo De rerum natura: «Né ormai religione divina o numi importavano più/molto, infatti: aveva più forza il dolore presente./Non restava nella città il rito di sepoltura che prima/quel popolo aveva per tradizione seguito nei funerali;/era sconvolto tutto nel terrore, e ognuno,/composti come poteva,/seppelliva piangendo i suoi cari./Molte cose terribili urgenza e miseria li spinsero a fare: i propri congiunti deponevano tra lacrime e urla/in cima a roghi costrutti per altri,/e gettavano sotto le fiaccole; spesso pieni di sangue/lottavano, piuttosto che quei corpi fossero abbandonati».