Trecentosessantotto morti affogati il 3 ottobre 2013 (già 3 mila dall’inizio del 2014 e 25 mila dal 2.000): ieri sono stati ricordati con una corona di fiori e una lapide gettate in mare nelle acque prospicenti il Porto Nuovo di Lampedusa, una tristissima cerimonia, alla presenza di autorità e di un pugno di parenti delle vittime.

Una pagliacciata? Qualche frangia di protestatari così l’ha voluta bollare interrompendo il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e la presidente della Camera Laura Boldrini, che presidiavano l’evento, presente anche il ministro Mogherini. Per ragioni opposte hanno manifestato anche i leghisti isolani, seguaci della sindaca precedente che si era affiliata al partito padano.

Come sempre accade in questi casi tv e giornali daranno conto di questi giorni di memoria parlando solo delle istituzioni e di quelli che ne hanno interrotto i discorsi. Pochi racconteranno del Festival Sabir, dal nome della lingua comune che un tempo univa i popoli mediterranei.

Il festival è promosso dall’Arci e da altre associazioni delle due sponde: 4 giorni di confronto per trovare una strada che consenta di rimuovere i detriti che in questo pezzo di mare si sono accumulati in mezzo millennio e ricostruire una comunità mediterranea. Non un incontro improvvisato, ma frutto di un lavoro, paziente e difficile, che dura da anni. Durante i quali sono stati intessuti rapporti, reti di solidarietà e occasioni di reciproca conoscenza, fra chi sulle due sponde non si rassegna.

Sono stati tantissimi quelli che hanno risposto all’appuntamento, accompagnato da un ricco programma teatrale e musicale destinato ad approfondire la reciproca conoscenza; o meglio a colmare almeno un po’ la nostra profonda e scandalosa ignoranza sul mondo arabo che ricordiamo solo per quanto vi accadde 2000 anni fa, solo un prezioso reperto, come se nel frattempo non avesse più dato nulla alla cultura del mondo.

Non riusciremo con questa iniziativa, come con tante altre di questi anni, a fermare le stragi di immigrati. Ma anche questo, anzi forse solo questo dialogo, può aiutare a dare un nuovo approccio al problema. Innanzitutto a chiedere una svolta nelle politiche mediterranee europee, 40 anni di fallimenti, perché tutte improntate alla liberalizzazione degli scambi, che hanno avuto come effetto – e non poteva essere diversamente – che quello di accentuare gli squilibri fra le due sponde, pensate come si trattasse di due partner commerciali alla pari e non invece, come sono, la rappresentazione del confine più drammatico del mondo,più di quello già terribile che divide Stati Uniti e Messico: qui un rapporto nel reddito procapite di 1 a 6, nel Mediterraneo di 1 a 14.

La questione mediterranea non è una specificità regionale, ha un significato molto più grosso: è qui che ha preso corpo lo scontro più forte fra fanatismi. Fra i quali occorre annoverare anche e soprattutto quello occidentale: non più le Crociate in nome del cristianesimo, né il vecchio colonialismo mascherato da «civilizzazione», ma l’ideologia del mercato. Potremmo mai battere le punte jahdiste più estreme se prima non capiremo che la nostra modernità, il nostro laicismo, anche tanti aspetti della nostra democrazia fondata sull’uguaglianza astratta dei diritti applicata a esseri disuguali nel potere effettivo di fruirne, sono stati vissuti sull’altra sponda come trauma, perché si è trattato di una modernità che li ha schiacciati?

È anche nella nostra arroganza eurocentrica, di chi si propone come punto di arrivo del processo di civilizzazione, che lascia agli altri popoli il solo compito di colmare il ritardo e allinearsi, che si fonda la diffidenza, quando non il rigetto dell’Europa, dei popoli del Maghreb e del Mashrek. Il Mediterraneo del sud è oggi lo spazio in cui prende corpo una critica di quella modernità e di quel progresso che è stato presentato come l’unica civiltà possibile. Costruire una comunità mediterranea che riapre un dialogo alla pari fra le due sponde, che ascolta le ragioni dell’altro e le assume, come chiedeva Eduard Said, «come risorsa critica di sé stessi», significa decostruire lo scenario di scontro di civiltà che costituisce il retroterra dell’estremismo jihadista.

Il festival Sabir è un pezzo di questo lavoro. Serve anche a far capire agli europei che non siamo più in presenza di un problema di immigrazione, ma di uno stravolgimento epocale che ha già reso, e sempre più renderà l’Europa una società sempre meno etnicamente e religiosamente omogenea. Pensiamo solo che fra cinque anni solo per mantenere i livelli di occupazione attuali occorreranno sull’altra sponda 90 milioni di nuovi posti di lavoro. Pensiamo di rispondere alla inevitabile ricerca di attraversare il Mediterraneo che questa domanda produrrà con la bomba atomica, o non dobbiamo piuttosto attrezzarci a pensare a un patto, un compromesso fra le due sponde, e, in prospettiva, anche a un’Europa che abbia un’idea della cittadinanza non più analoga a quelle delle nazioni che l’hanno composta, ma tale da includere quelli che dovremmo chiamare nuovi europei e non più extracomunitari?