Fuori dalla sede della Kadtuntaya Foundation (Kf), una delle prime ong fondate a Cotabato, campeggia un cartellone 6×4 raffigurante il primo presidente filippino proveniente dal Mindanao, Rodrigo Duterte.

Il virgolettato al suo fianco recita: «Niente placherà i Moro, nemmeno se gli verrà dato il Bbl (Bangsamoro Basic Law, ndr). Dobbiamo correggere delle ingiustizie storiche».

«NOI FACCIAMO ANCORA affidamento alle parole del presidente: se non si risolverà il problema delle ingiustizie storiche, nel Mindanao non ci sarà mai pace», spiega al manifesto Guiamel Alim, direttore esecutivo di Kf e presidente del Consortium of Bangsamoro Civil Society, organo che comprende la maggior parte delle organizzazioni della società civile locali, attive da decenni nella battaglia non-violenta per la creazione di uno Stato federato subordinato a Manila: il Bangsamoro, letteralmente «la nazione dei Moro».

Un obiettivo per cui generazioni di musulmani del Mindanao hanno combattuto dalla fine degli anni Sessanta, politicizzando una battaglia iniziata in epoca coloniale.

Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, gli invasori spagnoli – cattolici – che controllavano gli arcipelaghi di Luzon e Visayas iniziarono a espandersi a sud, nell’arcipelago di Mindanao, patria di diversi clan locali convertiti pacificamente all’Islam almeno due secoli prima.

LA GUERRA, NEL MINDANAO, la portò Filippo II di Spagna, cui si deve il battesimo sia delle Filippine, sia delle tribù locali di fede islamica, raggruppate nel nome collettivo dispregiativo Moros, come i «negri» musulmani africani.
«Eravamo la maggioranza in queste terre.

L’Islam era arrivato molto prima del cristianesimo e i nostri sultani lo difendevano dall’invasione, assieme alle nostre terre. La nostra identità è quindi essere musulmani ed essere gli abitanti del Bangsamoro», spiega Alim, tracciando un filo rosso che attraversa oltre quattro secoli di resistenza Moro contro Spagna, Stati uniti, Giappone e governo centrale di Manila.

I Moro e i Lumad, le popolazioni tribali non convertite, hanno visto restringere i propri possedimenti e il controllo sui loro terreni ancestrali – ricchi di materie prime, risorse naturali e metalli preziosi – ad opera di politiche coloniali perseguite da invasori e governi filippini, con forti incentivi dati a coloni del nord, cristiani, per «andare a fare fortuna» nel Mindanao.

DURANTE L’OCCUPAZIONE americana (1848-1946), l’esproprio delle terre prevedeva una rivendita proporzionata alla religione dell’acquirente: se cristiano, fino a 20 ettari; se musulmano o Lumad, inizialmente nulla; in seguito, a legge emendata, non più di 5 ettari.

Discriminazioni che, secondo l’approccio coloniale dell’epoca, rappresentavano tentativi di «integrare» i Moro nella cultura cristiano-occidentale dominante nel resto delle Filippine.

SOBILLATI DA DECENNI di propaganda del terrore rispetto al «problema dei Moro», dalle comunità cristiane stabilitesi nel Mindanao nacquero gruppi estremisti cristiani che affiancarono le milizie di Ferdinando Marcos durante la dittatura (1965-1986).

Il più noto, l’Ilaga, all’inizio degli anni Settanta integrato ufficialmente nelle forze dell’ordine di Manila incaricate di far rispettare la legge marziale, fu responsabile di decine di massacri in tutto il Mindanao, razziando, torturando e decapitando centinaia di Moro e Lumad.

Nessun leader del gruppo fu mai accusato o processato, aggiungendosi alla schiera di funzionari dell’esercito filippino che, sotto Marcos, perseguitarono i Moro e i Lumad in operazioni come il massacro di Jabidah del 1968, quando decine di reclute musulmane furono disarmate e uccise da commilitoni dell’esercito di Manila.

Il massacro, secondo gli storici, segna l’inizio alla lotta armata per l’indipendenza del Bangsamoro, una guerra civile combattuta da sigle come il Moro National Liberation Front (Mnlf), il Moro Islamic Liberation Front (Milf) e via via spin-off sempre più violenti fino agli attuali Abu Sayyaf e il cosiddetto Maute Group, affiliati a Isis e responsabili della cattura di Marawi lo scorso 23 maggio.

UNA SPIRALE DI VIOLENZA che i rappresentanti di Milf e Mnlf, assieme a esponenti della società civile dei Moro e dei Lumad, da vent’anni stanno cercando di interrompere spingendo per l’approvazione della Bangsamoro Basic Law, la legge che dovrebbe garantire la creazione di uno Stato federato ad hoc che comprenda le parti del Mindanao a maggioranza musulmana. Non certo una panacea per tutti i mali del Mindanao, ma sicuramente un punto di partenza per costruire una pace solida e duratura nell’arcipelago.

Il dialogo con le istituzioni, nonostante vari accordi siglati dagli anni Novanta in poi, è stato ripetutamente minato dai governi di Manila, restii nel rinunciare al controllo esclusivo di un territorio gestito, in pieno spirito coloniale, con una spiccata mentalità estrattiva.

Un «tradimento» che continua a rinfocolare l’odio contro Manila da parte di giovani Moro cresciuti nella discriminazione, pronti a indossare qualsiasi casacca utile a moltiplicare il coefficiente di terrore delle loro azioni: prima al-Qaeda, oggi Isis, in un internazionalismo del conflitto pronto a cooptare qualsiasi istanza locale.

Per questo, la conclusione scontata dell’assedio di Marawi – «liberata» lo scorso 17 ottobre dai terroristi islamici – se non accompagnata a un serio processo di pace che coinvolga tutte le anime delle comunità Moro e Lumad, sarà soltanto l’ennesima vittoria di Pirro contro il «terrorismo internazionale».

Dimenticandosi delle vere ragioni storiche, culturali e locali di un conflitto che nulla ha a che fare con il Califfato.