Jeanne è la figlia del barone Simon-Jacques e della baronnessa Adelaide. Ritornata dagli studi in collegio, è pronta per la vita. E infatti le viene presentato un pretendente, Julien. I due si sposano ma presto Jeanne scopre in Julien un uomo collerico, subdolo e infedele. È solo l’inizio di una catena di malori praticamente senza fine.
Stéphane Brizé ha dichiarato di aver tentato a lungo di adattare Une vie di Maupassant. Film difficile perché caro, come del resto ogni film in costume e perché potenzialmente poco attraente, si tratta infatti di un dramma dal trattamento assai contemplativo. Senza dubbio, è il successo del suo film precedente che gli ha dato la possibilità di dare seguito al progetto di Una vita.

La legge del mercato, uscito in italia nel 2015 dove, lo si ricorderà, Vincent Lindon interpretava un colletto bianco travolto da un dilemma morale. Qui Stéphane Brizé sembra voler fare semplicemente l’esatto contrario. Il racconto è situato nell’Ottocento, e si svolge in una tenuta di campagna. Al centro del proprio quadro di vita campestre c’è una donna che, come nel romanzo di Maupassant, è cosciente del male che le viene fatto, e al tempo stesso fermamente determinata a non ribellarsi e ad accettare sommessamente tutto quello che viene.

La libertà che il regista prende rispetto allo scrittore è allora unicamente formale. Quello che caratterizza Una vita, e che lo distingue dalla massa di film dello stesso genere, è l’idea di saltare bruscamente da un momento all’altro dell’esistenza della propria eroina ; interrompendo con un semplice taglio netto il flusso cronologico degli eventi. Ora, queste ellissi, contro ogni attesa, non servono a selezionare, nel flusso della vita, i momenti più salienti o significativi. Il matrimonio di Jeanne, la nascita del figlio, la morte della madre… non sono mostrati. Il taglio serve al contrario a escludere dal racconto quello che in genere la memoria trattiene. Qui invece siamo sempre prima o dopo la tempesta, mai durante.
Ecco che il film raddoppia lo stoicismo. All’indifferenza verso le cose esteriori che il personaggio coltiva si somma e si aggiunge un’indifferenza del film all’evento.

Epurato dei momenti d’azione, liberato dal problema di rappresentare il dramma, il film si abbandona ad una sorta di atarassia estetica, e si trova spesso a contemplare la propria attrice, il viso di lei rivolto verso un orizzonte al tempo stesso esterno e interno.
Non si può negare a questa idea una certa audacia, e la volontà di rinnovare il genere del film sull’aristocrazia ottocentesca è già in sé degna di lode. Ma quello che su carta funziona, sullo schermo appare a conti fatti una falsa buona idea. Oppure un malinteso accordo di forma e contenuto. Brizé sembra aver malcompreso la formula di Bresson : « costruirò il mio film sul vuoto e sul silenzio. » Una vita è perlopiù un film vuoto e silenzioso che un ottimo cast, tra cui la sempre eccellente Yolande Moreau, non riesce a riempire.